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Vera e falsa innocenza

di Luigi Del Favero

Ho sorpreso un capriolo in un campo di mais, intento a mangiare: evidentemente qualche parte della pianta, a me sconosciuta, per lui deve essere deliziosa.
Questa mattina la giornata domenicale si presentava bella e limpida, come l’aspettavamo da tempo, mentre l’aria era frizzante; per via del giorno di festa, forse ero il primo a passare per quella strada di campagna, disturbando la piacevole occupazione del capriolo. Alla grazia tipica di queste bestiole, aggiungeva il colore rossastro del bel pelo lucido, ben diverso da quello arruffato e grigio con cui i caprioli superstiti erano usciti dalla lunga stagione invernale. Gli si sarebbe perdonato tutto.
Accortosi di me, si è fermato, ma contrariamente alla sua natura, non è fuggito con un’esibizione di corsa "da capriolo". È rimasto immobile a guardarmi, mentre io pure stavo fermo. Dopo qualche istante, ha iniziato a camminare a lato del campo di mais, come un turista che passeggia tranquillamente, indifferente e disinteressato rispetto al grano vicinissimo e abbondante.
Sotto il quadro avrei messo un’iscrizione: «L’innocenza». Anche se lo avevo sorpreso a ...rubare.
Il capriolo ostentava innocenza con maggiore grazia di quell’uomo che, giorni fa, è giunto nello slargo in cui avevo fermato l’automobile. Le numerose tasche del giaccone che indossava erano gonfie ed era facile indovinare che si trattava di funghi. Il signore però ha intavolato subito discorso domandandomi il nome delle montagne circostanti. Anche se era evidente che le cime che si innalzano al cielo lo interessavano meno dei porcini che sbucano dal terreno.
Voleva mostrarmi la sua innocenza ed evitare ogni domanda sui funghi.
Lo accosto spontaneamente al capriolo, pur con la difficoltà di attribuire ad un animale selvatico pensieri e sentimenti.
Ci teniamo tanto alla nostra innocenza, anche come popolo, come italiani, e ne facciamo spesso gran mostra. Basterebbe una conoscenza della storia a livello di scuola media ‐ quella di una volta ‐ per demolire tanta falsa innocenza.
Nei giorni scorsi c’è stato un grande allarme per le malattie che possono portarci gli immigrati: la nuova Tbc, Ebola e perfino la lebbra, insieme alla più banale scabbia. Abbiamo sentito politici fare affermazioni roboanti sul loro compito di proteggere innanzitutto la salute dei veneti. Dovremmo stare tranquilli. La coscienza però difficilmente si tranquillizza. Istruita dalla storia, ricorda che noi occidentali abbiamo sterminato intere popolazioni indigene portando loro malattie per le quali erano privi di difese, non avendone sviluppato gli anticorpi. Accadde in America, del Nord e del Sud, in Africa e forse anche altrove. I libri di storia ne parlano e forniscono le cifre impressionanti delle stime di morte dovute alle malattie esportate dall’Europa. Gli europei erano andati in quelle terre con le armi in pugno da conquistatori e da usurpatori.
Il caso di lebbra nel Veneto, di cui si è fatto un gran parlare, mi ha fatto ricordare suor Eliana. Era un’anziana religiosa giunta a Belluno negli anni della pensione dopo una vita trascorsa negli ospedali. Con molta ritrosia una volta ci raccontò dei suoi anni in un lebbrosario. Non in Africa o in Amazzonia, ma in una località sul Garda dove, sul finire della guerra ‐ dal ’44 al ’46 ‐ avevano portato i nostri soldati reduci dall’Africa e ammalati di lebbra. Suor Eliana aveva volontariamente accettato si essere reclusa con loro per due anni, come infermiera e responsabile delle cure. Dopo quell’esperienza avrebbe meritato una laurea in psicologia, e specificamente in psicologia maschile.
Anche quegli sfortunati soldati erano stati mandati in Africa a fare guerra a popolazioni che non ci avevano fatto nulla di male. È curiosa la Storia (quella con la maiuscola, non la materia scolastica)!
Gli italiani erano andati a conquistare ‐ con armi potenti, maneggiate talvolta con crudeltà ‐ paesi come l’Eritrea, la Somalia, l’Abissinia, la Libia. Sono gli stessi paesi dai quali giungono oggi spauriti profughi, armati solo di fame, paura, disperazione.
No, non siamo innocenti.
Io non correrò a confessarmi accusando il peccato di aver sterminato le popolazioni indigene con malattie europee o di aver portato la guerra nelle colonie africane.
Si tratta di altra colpevolezza e di altra innocenza. Anche di altra penitenza da fare!
«Signore, esaudiscila, perché ci grida dietro». Così dice il vangelo di oggi, riportando le parole degli apostoli, infastiditi da una donna straniera che disturba il Maestro e loro.
Ai nostri stranieri noi diciamo: «Andate alla Caritas!» evitando di guardarli in faccia, di ascoltare le loro storie o solamente di chiedere il loro nome.
Quelli dell’Africa nera hanno generalmente nomi cristiani: sono quasi tutti battezzati; molti sono cattolici. Dunque sono nostri fratelli a doppio titolo.
Ma noi, da superiori, consideriamo unicamente i loro bisogni materiali di cibo, vestito, alloggio, trascurando i legami che ci stringono a loro. Dio ci domanderà conto del fratello.
Siamo meno innocenti del capriolo che ha aspettato che io scomparissi per dedicarsi nuovamente al suo mais.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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