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Il furto e l’avventura

di Luigi Del Favero

Appartengo alla minoranza di persone per le quali la stagione più bella dell’anno è l’autunno. Come accade sempre quando si è minoranza, si viene considerati strani. Così evito di comunicare la mia preferenza ai tanti che amano la primavera o aspettano l’estate. Perfino gli appassionati dell’inverno ci battono: è più facile entusiasmarsi per la neve e le vicende di ’valanga azzurra’ che per le foglie che cadono dagli alberi, la nebbia che invade le valli, in compagnia della brina che sale sui cespugli e brucia le ultime foglie, i silenzi delle sere precoci che fanno strada a lunghe notti. Questi ultimi sono i segni dell’autunno che in molti si accompagnano alla depressione.
Ma come dimenticare i colori e gli odori e i sapori dell’autunno? La natura offre spettacoli gratuiti, mai ripetitivi; la terra dà generosamente i suoi frutti; il cielo può mostrare giorni di grande luminosità, esaltata al massimo dai tramonti e sa abituarci ad una luce più tenue che sollecita al raccoglimento, all’intimità, alla lettura, alla quiete.
Sono partito da Belluno in uno dei giorni in cui inizia l’autunno meteorologico, diretto verso un paese di alta montagna, dove ero atteso verso sera. Ho lasciato la città che si stava riprendendo dopo un temporale veloce e quasi violento. La strada era invasa da foglie abbattute, strappate dai rami senza avere il tempo per quella danza per la quale si vestono dei colori che mi piacciono tanto. Ho provato la sensazione di un furto, subito dimenticato man mano che salivo. Il cielo si era aperto e splendeva un sole tardo estivo. Chi ha detto che la stagione dei fiori è la primavera? Io toglierei il primato dei fiori a maggio per darlo a settembre. Nei paesi che attraversavo pareva che fossero state allestite mostre di fiori. Gerani, surfinie, petunie sui balconi; dalie, zigne, astri, nei giardini e negli orti. Di molti fiori non so il nome; di nessuno posso dimenticare il colore intenso, variopinto, esuberante. Anche i meli, con i rami che si curvano per il peso dei tanti frutti, danno spettacolo.
Mi stavo immergendo nell’autunno che amo, ma non potevo fermarmi per l’impegno che mi attendeva. Dovevo anche salire più in quota.
Oltre i mille metri ho incominciato a notare alcuni cambiamenti non piacevoli. Nel frattempo il cielo si era di nuovo chiuso in un grigiore compatto.
Non mi sono meravigliato della neve che imbiancava le cime più alte, ma degli alberi assai strani.
Un gruppo di betulle mostrava rami quasi spogli, con foglie rade e tristi. Non le vedremo nell’abito giallo che ha dato loro celebrità perfino nella letteratura, quella russa specialmente.
Alcuni frassini lasciano indovinare di aver sofferto molto nella lotta con il vento: le fragili foglie sono già cadute senza danza.
Quelle dei faggi, ben più robuste, resistono, ma hanno precocemente cambiato colore.
Gli arbusti del sottobosco sembrano reduci da battaglie in cui sono stati sconfitti e devastati.
Salendo ancora e superando la quota dei 1.400 metri ecco la sorpresa dei larici. Le cime sono gialle; i rami più prossimi al suolo completamente spogli e quelli di mezzo con un colore più vicino al grigio che al verde. È troppo dire che mi hanno trasmesso inquietudine? Delusione sì, ne ho avuta tanta e la certezza che le settimane dorate per la parata dei larici quest’anno non ci saranno.
È ritornata la sensazione del furto: non ci hanno rubato solo l’estate, ma anche l’autunno.
Arrivato a destinazione ho incrociato un’anziana del posto e ho commentato con lei, già avvolta in un maglione pesante, l’aspetto dei larici.
«Sono ammalati; tutte le piante sono ammalate quest’anno», mi ha risposto, con la serietà un po’ triste con la quale si formula una diagnosi. Aggiungendo subito: «E si vorrebbe che noi stessimo bene! Pure noi siamo ammalati». Ho obiettato che a differenza delle piante che devono rimanere al proprio posto, affrontando pioggia, vento, fulmini e freddo precoce, noi possiamo metterci al riparo.
«Questo non significa nulla perché il tempo non ci risparmia! Le stagioni sono un’avventura e non si sa quello che riservano. Bisogna adattarsi e accettare perché non dipendono da noi». Ho capito che aveva emesso la sua sentenza e l’ho trovata saggia.
L’immagine dell’avventura mi ha però inoltrato per un’altra strada. L’avevo incontrata al mattino leggendo una commemorazione di Charles Pèguy di cui ricorreva quel giorno – 5 settembre – il centesimo anniversario della morte. Sul fronte della Marna, era stato una delle prime vittime francesi della guerra appena iniziata. Aveva scritto: «C’è un solo avventuriero al mondo: è il padre di famiglia. Al suo confronto gli altri, i peggiori avventurieri, non sono nulla. Gli altri soffrono solo per se stessi, Invece solo il padre e la madre di famiglia soffrono per gli altri. Lui solo ha degli ostaggi, la moglie e il bambino, e la malattia e la morte possono colpirlo in tutte le sue membra. Tutti gli altri, chierici compresi, possono scantonare, fare manovre diversive, perché con sé non hanno bagagli». Parole di uno che amava il paradosso, scritte con lo stile di un secolo fa. Eppure capaci di distogliermi dalle mie piccole malinconie, di curare una lieve tristezza per i larici, lasciando il posto ad una più importante solidarietà umana.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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