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Di notte nel bosco

di Luigi Del Favero

È sabato sera 11 ottobre. Oggi abbiamo celebrato per la prima volta la festa di San Giovanni XXIII e questa è l’ora del discorso della luna, discorso che quelli della mia generazione non possono dimenticare. Esco nel buio con la speranza di vedere la luna e rivivere l’emozione dell’11 ottobre 1962 che si sta inesorabilmente allontanando. Percorro a piedi nel bosco la strada che porta all’abitato di Ornella, nel territorio di Livinallongo. Ma questa sera la luna non c’è perché il cielo è chiuso: al tramonto lo avevamo visto uniformemente grigio e anche ora se ne percepisce l’oscurità immobile. L’aria è fin troppo mite per una sera di metà ottobre. Sono contento di trovarmi qui e grato per la possibilità di rifare ancora una volta un percorso ben noto, in un ambiente tanto amato da sentirlo un po’ mio. Tuttavia sono triste. Ogni tanto getto uno sguardo alla massa scura del Col di Lana che si eleva dall’altra parte della valle, doloroso testimone di guerra. Penso che cent’anni fa la gente di questi luoghi stava entrando nel primo inverno di guerra, con gli uomini lontani. Arruolati nell’esercito austro–ungarico, molti erano già arrivati in Galizia ed avevano capito, prima dei generali, che la guerra fulminea sarebbe stata tanto lunga. Quanto saranno sembrati lontani quei paesi, oggi collocati tra Polonia e Ucraina, a gente abituata a vivere nei confini di una valle, percorsa a piedi per ogni verso? E la guerra è ancora presente nel nostro mondo; oggi stesso ha fatto vittime, ha minacciato intere popolazioni, ci ha contagiato con la paura del terrorismo. Ma noi uomini non impareremo mai nulla?
Sono triste anche perché sono solo. Più precisamente la solitudine cercata con tanto desiderio, ora risulta vuota.
Pensavo si sentire il bramire dei cervi, ma domani mi diranno che la stagione degli amori è velocemente passata e la voce potente dei cervi tacerà fino all’autunno prossimo. Mi dispiace perché la evoco spesso per costruire alcuni paragoni a scuola.
Percepisco però di non essere solo. Un movimento tra gli alberi, un rumore del fogliame calpestato, i colpi sul terreno che lasciano indovinare i salti a noi proibiti di cervi o caprioli, il brillare di occhi notturni mi fanno capire di non essere solo. Alla luce della lampada tascabile con la quale illumino, di tanto in tanto i miei passi, distinguo solo una volpe che attraversa la strada davanti a me. Ma mi sento spiato, seguito, temuto. Non ho paura, ma mi sento un estraneo: uno che vorrebbe offrire amicizia ed invece è respinto come un intruso o un nemico. Anche la pace con il creato è ferita in profondità!
Qualcosa cambia quando giungo in prossimità delle case, accolto dall’odore del fumo che esce dai comignoli. È fumo di abete che brucia nelle stufe riscaldando la sera pacifica di un sabato e racconta la storia degli abitanti. Cerco di ricordarli per nome, mi chiedo se ci saranno ancora tutti e mi sento a casa.
È il momento per ascoltare alcune voci: quella dell’acqua dei torrenti e, inaspettata, quella dei campanili che segnano le ore 21.
Allegra quella di San Sebastiano di Ornella, più discreta, ma ancora giovanile, quella di San Giovanni, solenne e lenta quella di San Giacomo che giunge dal lontano campanile di Pieve. Non sono sincronizzate, ma così è più bello. Segneranno anche le ore della notte dato che non ci sono turisti nevrotici che protestano; faranno compagnia alle veglie dei più vecchi. Guardo in su e scruto il cielo dove mi pare di scorgere una luce che attribuisco ad un aeroplano. Ma questa non si muove e si rivela come la luce di una stella.
Brilla esattamente sopra un grande e oscuro abete, che par collocata sulla sua cima. La fisso e a poco a poco ne vedo altre che si affacciano sempre più sicure. Dunque il cielo si sta aprendo con il presagio di un domani sereno. Adesso non sono più solo. Le stelle recano con sé il messaggio del cielo che non è vuoto: da lassù c’è chi ci guarda, ci segue, ci protegge, ci attende. Mi pare che dall’altra parte della montagna verso oriente si alzi un chiarore che mi fa pensare alla luna che tuttavia non vedo. Mi basta sapere che c’è e ripassare quel famoso discorso che credo di conoscere a memoria. Una di quella stelle è quella di papa Giovanni al quale ho tante cose e persone da raccomandare, primo fra tutti il suo successore Francesco che lo richiama da vicino.
Sulla strada del ritorno mi fermo davanti alla grotta della Vergine Madre. Prima ci ero passato davanti senza accorgermi. È lì da 25 anni, impegnata a proteggere quanti passano per questa strada e, pur in un ambiente aspro, canta il Magnificat scritto ai suoi piedi.
Ora mi accorgo che la scrittura è stata rinnovata e la grotta è stata rimessa a nuovo.
La saluto con la Salve Regina, la preghiera di quest’ora della notte che avanza, l’invocazione di tutti gli esuli che pensano a chi li attende in patria.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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