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Il gregge addormentato

di Luigi Del Favero

I pastori, aiutati dai cani, stavano spingendo il gregge in una radura non lontana dalla strada. La giornata era stata splendida e tiepida; pure a sera la temperatura gradevole invita a non chiudersi in casa. Il sole sta tramontando lontano e il Piave offre uno spettacolo che non si smetterebbe mai di ammirare. Ora però la mia attenzione è tutta per il gregge che ho incontrato. Il gregge possiede la capacità di parlare e di trasmettere qualcosa di elementare come succede per il fuoco, il sole, il mare, la neve, i cuccioli di ogni razza, tutte realtà che sanno parlare anche ai bambini. I bambini infatti sono come calamitati e non si staccano facilmente da un gregge: lo seguono incuranti dei richiami delle mamme. A quest’ora della sera io faccio come i bambini fermandomi e accompagnando per un po’ pecore, agnelli, asini, cani e pastori, attirato dalla stessa calamita che ha tanta forza verso i bambini.
Più tardi ripasso per la stessa strada quando è già tardi, anche se l’oscurità della notte non è ancora completa. Il gregge è al proprio posto: radunato e compatto, da lontano appare immobile, anche se all’interno c’è un misterioso e instancabile muoversi di un animale contro l’altro e specialmente dei piccoli verso le madri. Questa volta mi fermo senza scendere dall’auto, apro i finestrini e spengo il motore. Non c’è più molto da vedere ma c’è tanto da ascoltare. Pacato, sommesso, dolce c’è un incessante belare composto da decine e decine di richiami. È una voce riposante che trasmette pace e che non cesserà per tutta la notte. Ma perché le pecore non fanno silenzio? Forse dormono parlando? Cosa si raccontano?
Una lettura di questi giorni mi ha spiegato la cosa in maniera soddisfacente.
Le pecore sono animali quasi ciechi. Il loro campo visivo è molto ristretto e quindi la vista è limitatissima. In compenso hanno un udito finissimo, capace di percepire e distinguere le voci. Le madri riconoscono il richiamo del proprio piccolo senza sbagliarsi e gli agnellini distinguono la voce della madre tra centinaia di altre pecore. Si guidano l’una l’altra proprio con la voce e il belare incessante, che non smette neppure durante la notte, trasmette messaggi rassicuranti di presenza reciproca. Come dimenticare la scena autunnale vissuta tante volte da ragazzo! Il primo sabato di ottobre – il sabato prima del Rosario – le pecore che avevano trascorso l’estate nei pascoli di alta montagna scendevano in paese, a San Vito, e nel luogo designato avveniva la cernita. Erano mille o duemila? All’immaginazione infantile parevano tantissime. Il nonno le chiamava e da quella massa le "sue" pecore giungevano e gli si facevano intorno. Quando le aveva contate si avviava, sempre chiamandole, ed esse lo seguivano senza incertezze.
Oggi molti di noi conoscono questa scena solo per la descrizione indimenticabile che ne fornisce il vangelo: «Le pecore ascoltano la voce del pastore; un estraneo non lo seguono, ma conoscono il proprio pastore che le chiama una ad una per nome».
L’originale lettura alla quale sto riferendomi spiega in modo convincente la storia del bastone. Quante volte abbiamo ripetuto cantando: «Se anche vado per valle oscura, il tuo bastone è la mia sicurezza e mi dà conforto»?
Normalmente il bastone lo si teme e si cerca di schivarlo per non essere colpiti. E poi, animali dalla vista scarsa e nell’oscurità non lo possono vedere. Ma l’autore biblico s’intendeva del gregge e sapeva che le pecore distinguono il battere in terra del bastone del pastore: quel rumore diventa la bussola che fornisce orientamento; finché lo percepiscono e vi restano vicine, le pecore sono certe di non perdersi e di non finire nel dirupo. Nella marcia, il bastone battuto in terra fornisce il ritmo e la direzione del cammino, mentre la sua assenza disorienterebbe.
Noi siamo ben diversi dalle pecore e, fatti i conti, le diversità sono tutte a nostro vantaggio. L’intelligenza e la libertà ci pongono su un piano superiore dal quale non vogliamo scendere. «Uomini siate e non pecore matte!» diceva Dante in uno dei rimproveri più noti della sua grandissima Commedia.
Eppure in fatto di udito le pecore ci battono e distinguono meglio di noi la voce buona da ascoltare e seguire.
Avremmo bisogno di un po’ del loro talento nell’immenso vociare di questo tempo. Le voci pessimistiche e allarmistiche sono diventate dominanti e affaticano il cuore. Statistiche nere, previsioni negative, documentazione scoraggiante circa lo stato dell’economia, della sanità, della scuola: sono tra i messaggi che sovrastano quel vociare. Verrebbe voglia di abbandonare il gregge, cioè la nostra società, concretamente la comunità in cui viviamo e di fuggire. Ma la comunità non la nominano più e parlano solo del "Paese", dipingendolo come il peggiore del mondo. Invece di cercare il pastore, veniamo esortati ad andare dal giudice: «Denunciate, denunciate!» ripete una conduttrice della radio nazionale, troppo famosa. Quelli della TV non sono migliori, neppure i comici e gli imitatori.
L’invito ad andarsene diventa di volta in volta esortazione a non partecipare, a non votare, a non fidarsi di nessuno...
Quest’anno, guardando il presepio, farò attenzione alle pecore e fisserò il bastone del pastore: c’è qualcosa di buono da imparare e imitare.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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