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Senza nebbia

di Luigi Del Favero

Scrivo nel primo giorno d’inverno vero. Non quello segnato sul calendario, ma quello che si sente sulla pelle che avverte finalmente il freddo. E non c’è traccia né di nuvole né di nebbia. Neppure sul Piave, inseguito fin dove lo sguardo può arrivare, c’è l’abituale velo o spessore di vapore che ne segnala il corso attraverso tutta la Valbelluna. Non mi staccherei dalla finestra dalla quale vedo le montagne lievemente innevate e scruto specialmente l’ampia vallata del Piave che, nella luminosità della giornata, non nasconde la valli laterali, le balze, i paesi con i campanili. Il fumo che si alza, forse sopra Trichiana, mi permette di immaginare un contadino che brucia le sterpaglie: lavora anche in questa mattinata che per tanti è dedicata al sonno come documenta il grande parcheggio vuoto sotto le mie finestre. L’animazione delle strade che portano in montagna da qui non si può percepire. La conosco bene e mi piace, ma non ho rimpianti poiché lo spettacolo della luminosità mi ripaga. Essendo rari, questi momenti portatori di esperienze semplici e vive, sono diventati preziosi. Senza di essi il mondo nel quale viviamo ci diventa sconosciuto, nascosto e, come tutte le cose che non vediamo chiaramente, diventa minaccioso e ostile.
Il mio piccolo calendario personale e segreto segna per oggi alcuni anniversari, tristi e lieti. Uno è indicato in rilievo: è la data del mio Battesimo. Da quel lontano giorno faccio parte di questa famiglia che è la Chiesa. Quante volte mi è andata stretta! L’ho criticata, l’avrei voluta molto diversa, l’ho temuta anche, ma la Grazia del Battesimo non è rimasta inoperosa e non ho mai pensato di abbandonarla questa Chiesa che vorrei poter ancora servire e soprattutto amare.
La mia Chiesa: oggi ne vedo il corso in questi decenni con la stessa lucidità con cui seguo il cammino del Piave. Metterei da qualche parte, ben in evidenza, una data che ricorderemo spesso nel 2015 nel quale stiamo entrando. Scriverei in grande: 1965, l’anno di chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Sono passati 50 anni da quel fatto straordinario che oggi è riaffiorato, come fanno i fiumi, facendoci apprezzare tutta la sua freschezza e anche la sua necessità.
La pratica di scuola mi insegna che il Concilio bisogna raccontarlo perché chi ha meno di 60 anni non lo può nemmeno ricordare. Non volendo consegnare a chi mi interrogasse il grosso volume con i documenti conciliari, comincerei il racconto con una piccola esperienza di ogni giorno. Nella chiesa che sto servendo hanno collocato un lezionario biblico aperto sulle letture del giorno. Osservo spesso gente che entra in chiesa a tutte le ore: venera l’Eucaristia, si ferma davanti all’immagine della Vergine e dei santi e poi si trattiene su quel lezionario e legge la Parola della Bibbia assegnata a quel giorno. Ho notato che per i fedeli filippini, assidui alla visita alla chiesa, prima del lavoro, questa è un’abitudine costante. Commenterei: senza il Concilio non avresti visto questa scena. Poi spiegherei: il Concilio ruppe una diga, liberando il fiume troppo spesso bloccato di un rinnovamento a lungo atteso. I fedeli cominciarono a pregare nella propria lingua, facendo della liturgia la sorgente della spiritualità. La Bibbia si potè leggere direttamente. Furono gettati molti ponti. Il primo verso i cristiani non cattolici che abbiamo cominciato a chiamare fratelli. Il secondo verso gli ebrei, considerati non più perfidi nemici, ma addirittura fratelli maggiori. Il terzo verso le altre religioni, onorate per i germi di verità che contengono. Tramontò l’idea della Chiesa come una società monarchica ‐ papa e vescovi che governavano una moltitudine di persone raggiunte capillarmente attraverso il clero ‐ e maturò sempre più l’idea del "popolo di Dio", nel quale ogni individuo si distingue per la missione e il ruolo che gli è stato assegnato, ma tutti sono uguali in dignità. Non esistono distinzioni per rango né per sesso. La vocazione alla santità è stata dichiarata come vocazione universale, destinata in modo speciale alla famiglia, chiesa domestica. Si instaurò un nuovo clima di dialogo e di collaborazione. I cattolici non avrebbero più avuto paura della modernità né della sua parola d’ordine: la libertà. Piuttosto si sarebbero assunti il compito di correre davanti, mostrando come costruire un’umanità nuova e avrebbero collaborato con tutti per far nascere un mondo più umano. Il servizio alla pace li avrebbe visti in prima fila. Il Concilio si chiuse insegnandoci una sigla, simile ad un canto, che contiene un programma: «Gaudium et Spes: le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto, sono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla esiste di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Riassumeva la spiritualità cristiana in una parola, tratta dalla più famosa parabola di Gesù: il buon Samaritano.
Il Concilio aveva immaginato che il suo programma di riforma avrebbe liberato nei cristiani nuove energie da investire nell’evangelizzazione. Dopo di allora quanta generosità, quanto impegno, quanto lavoro!
Poi un Nemico, almeno a noi occidentali, ha rubato l’entusiasmo; ha seminato tra noi stanchezza e delusione, ci ha fatto perdere tempo in dolorose contrapposizioni. Alcuni hanno fatto retromarcia, altri se ne sono andati, sbattendo la porta, anche preti e consacrati.
La lucidità di oggi ci aiuti a vedere il cammino che abbiamo fatto e la strada che ci attende.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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