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L’albero e le sue radici

di Luigi Del Favero

Non ho avuto occasione di visitare e neppure di vedere da lontano dei frutteti in questa stagione. Il ricordo corre in Trentino e in Alto Adige dove la produzione di mele è un’arte oltre che un grande affare. Passando per i nostri paesi di montagna ho però osservato gli alberi di melo, che attirano l’attenzione, spesso piantati sulle scarpate vicino alla case.
Danno spettacolo con i loro frutti che quest’anno sono abbondanti, coloratissimi, in una parola, belli. In molti casi si può constatare che i frutti sono più numerosi delle foglie e non è un modo di dire. Il proprietario che li ha tenuti d’occhio da quando li ha potati, ora ha puntellato i rami con dei sostegni, dato che minacciano di spezzarsi sotto il peso delle mele che attendono l’ultimo sole per maturare. Talvolta si tratta di semplici rastrelli piantati nel terreno e sui quali vengono fatti poggiare i preziosi carichi; altre volte i sostegni sono più elaborati. Probabilmente li ha collocati lì un pensionato che dedica passione e tempo ai suoi alberi. Alcuni appaiono abbandonati; sono circondati dall’erba ormai secca, mostrano di non aver conosciuto la potatura salutare e offrono frutti meno belli, ma non meno numerosi. Non attendono ceste dove essere deposti con accuratezza per evitare ammaccature. Aspettano i corvi, specialmente quelli che scenderanno dalle rocce all’arrivo del freddo ‐ si chiamano gracchi alpini ‐ assicurando loro cibo abbondante fino alla prima neve. Non credo che le gazze amino le mele, quantomeno quelle che ho visto appostate nei pressi di un campo di patate, perfino sullo spaventapasseri che a loro non fornisce spavento, ma solo un comodo appoggio. Le gazze, chiassose e colorate, preferiscono scavare per terra e razziare le patate. Questione di dieta o di gusti o di istinto?
Penso che la ricca produzione di questa annata sia da attribuirsi al caldo che ci ha fatto compagnia fin dall’inizio della primavera, recandoci anche il fastidio di settimane da record per quanto riguarda le temperature.
Del caldo e del sole non hanno goduto solo i nobili alberi dei frutteti, ma anche umili arbusti del bosco.
Ne ho osservati alcuni salendo verso il passo Staulanza dal versante della Val Fiorentina. Imitando don Abbondio, camminavo con il breviario in mano, chiudendolo di tanto in tanto e inserendo il dito come segnalibro per ritrovare la pagina giusta e concedendomi di osservare quel bosco che mi attira tanto. Vi ho ritrovato una specie di arbusto che conoscevo fin da bambino. Produce una bacca di colore rosso vivo, dalla forma allungata e dal sapore acidulo. È commestibile pur non possedendo la dolcezza dei lamponi o delle more; noi dicevamo che le bacche erano adatte a spegnere la sete.
L’arbusto in questione è molto ramificato e fornito di spine pungenti. Tagliavamo anche i rami, sottili e resistenti, per farne scope ottime per la pulizia della stalla. Chiusa l’onda dei ricordi, ho riaperto gli occhi sulle bacche rosse: non ricordo di averle mai viste altrettanto numerose, capaci di piegare i rami lungo i quali crescono. Ho cercato di raccogliere qualche rametto per utilizzarlo in quelle confezioni di fiori secchi, molto apprezzati nei paesi più alti, che in autunno prendono il posto dei gerani sui balconi. Ho rinunciano sia perché le spine pungevano sia perché le bacche, troppo mature, si staccavano e cadevano a terra.
Ho pensato che tutte queste piante non hanno risentito del caldo e della siccità che altrove hanno prodotto tanti danni per via delle radici ben sprofondate nel terreno dal quale hanno tratto umidità e nutrimento.
È una legge sicura: l’albero che onora le radici produce molti frutti.
Viceversa quello dalle radici superficiali o quello che pretendesse di staccarsi dalla proprie radici ha vita stentata, non produce frutti e muore presto.
Vale per ciò che cresce sulla terra ed anche per quello che nasce dall’anima. Vale soprattutto per l’anima di un popolo.
Nelle nostre radici c’è la solidarietà. Staccarsene per coltivare l’individualismo o per esasperare l’identità o per ottenere il vantaggio immediato di non dover spartire la torta del benessere, è come recidere le nostre radici.
Anche l’ospitalità ci appartiene. Grazie ad essa le montagne non sono diventate muri ostili ma ripari accoglienti. È un caso che tra le cose più belle delle nostre Dolomiti ci siano i "Passi"? Dal Falzarego al Pordoi, dalla Mauria a Monte Croce, dal Duran al Campolongo: aperture per passare, per comunicare, per vincere l’isolamento e diventare più ricchi. Attraverso i valichi passano merci da scambiare, amicizie da cementare (anche con i matrimoni), feste da condividere, tradizioni da mescolare, comprese le ricette di cucina.
C’è la radice importante del linguaggio e c’è quella del canto. La più profonda è costituita dalla Fede. Uno dei compiti riconosciuti universalmente alla religione è quello di curare le radici di un popolo e di insegnarne il percorso, senza dimenticarsi dei rami da protendere verso il cielo e verso gli altri, possibilmente carichi di buoni frutti.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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