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Carissimo don Augusto

di Luigi Del Favero

Carissimo don Augusto,
ti raggiungo in Niger con questa risposta alla tua commovente intervista pubblicata sul nostro giornale la settimana scorsa.
Da noi si sta parlando molto dell’Islam e dei mussulmani. Lo facciamo di solito nei bar, nei salotti, mettendoci in comunicazione con i chiassosi salotti televisivi nei quali non si parla d’altro, qualche volta anche nelle aule scolastiche e in chiesa. I nostri sono discorsi in cui domina il giudizio su fatti lontani e su persone conosciute per sentito dire. Manca l’esperienza.
Tu invece, dopo tanti anni di Africa, di esperienza ne hai tanta e la sai rileggere con il cuore e con profonda intelligenza. Ora vivi in mezzo ad un popolo al 99%, e più, mussulmano, in mezzo al quale la tua presenza è soprattutto testimonianza, dal momento che non hai ancora convertito nessuno alla fede cristiana. E sai benissimo che questo è uno dei punti che noi fatichiamo a capire, trepidando per te. Ieri siamo andati subito a vedere quanto è lontano il Mali dalla tua città.
Tu parli dei "tuoi" mussulmani, laggiù a Gaya, dove il Niger si incontra con il Benin e la Nigeria, li descrivi con realismo, senza poesia e senza veloci trasfigurazioni, constatando l’impossibilità del dialogo, almeno di quello teologico che verte su argomenti religiosi. Lì la chiusura è totale. Eppure tu racconti pacatamente della curiosità, dell’attenzione, del rispetto e perfino dell’amicizia che può nascere nei mussulmani riguardo alla tua persona e alla tua presenza e ne fai un esame preciso e per noi illuminante.
Precedendo le tue parole, noi saremmo svelti ad attribuire la simpatia che susciti alla carità, cioè alle opere che svolgi in loro favore sul piano umanitario. Queste ci sono certamente e tu le nomini una per una, dalla scuola al carcere – in grande evidenza – all’ospedale che tu frequenti, tappandoti il naso. Tuttavia vai oltre e attribuisci quel crescendo di atteggiamenti che vanno dalla curiosità all’amicizia, passando per il rispetto, a due realtà per noi inaspettate. La prima è il tuo celibato. Qui ti cito letteralmente per non rovinare le tue parole: «Stimano il mio essere celibe, non lo capiscono e me lo dicono anche: "Ma come fai! è impossibile". Loro che hanno più mogli ma cercano anche altre donne altrove... Però mi stimano perché vedono che sono celibe. A Gaya siamo due preti e un volontario bianchi; quindi ci vedono dappertutto, siamo visibili, non possiamo mentire, non possiamo imbrogliare e ci controllano in tutti i nostri movimenti. Vedono che siamo celibi, non andiamo a donne come loro e stimano, stimano questo. Abbiamo tre suore africane che sono velate come le loro donne. Loro le guardano, le cercano, chiedono chi sono i loro mariti. Chi è il loro marito? Perché vedono che abitano insieme, poi vedono che pregano, che la sera stanno da sole e quindi le stimano e così si può parlare con loro, dialogare e andare d’accordo».
Augusto, che schiaffo e come brucia! Con la tua ben nota mitezza ce lo hai affibbiato dritto colpendo i dubbi, le incertezze, le discussioni e quella sorta di tristezza che da tempo avvolge da noi il celibato dei preti con il presupposto che li renda meno umani. Per la tua esperienza esso è una chiave che apre i cuori alla fiducia di gente tanto lontana! Certo, voi lo vivete come in una vetrina, senza spazi per il privato, e lo rendete bello con la preghiera. Ecco la seconda realtà che i tuoi ’amici’ mussulmani scrutano e quasi sorvegliano. Vi vedono pregare e ammirano la gioia con la quale uscite dalla preghiera fatta in un hangar, non in una cattedrale. Lascio di nuovo la parola a te: «Me lo dicono: quando voi uscite dalla preghiera voi sorridete, siete contenti, non come noi che quando usciamo dalla moschea andiamo tutti per conto nostro! Testa bassa, tornano alle loro occupazioni e questo – credo – sia una testimonianza del rapporto con Dio nella comunità».
Ed è il secondo schiaffo che ci mandi, per svegliarci e fare un esame di coscienza sulle nostre Messe, spesso così stanche.
Sai, Augusto, qui da noi tutti si affannano a dire che gli attacchi degli islamici non ci devono far cambiare: «Non rinunceremo a nessuno dei nostri valori!». Che poi si riducono al solo valore della libertà intesa come possibilità di fare ognuno quello che gli piace. Tu invece affermi che sei in Niger, in mezzo ai mussulmani, non per convertire loro, ma per convertire te stesso. È la parola che mi ha fatto tanto bene e che mi ha fatto pensare molto. Ce la ripete papa Francesco, con poco ascolto da parte nostra. Parlando del Natale ormai vicino ha detto: «Siamo vicini al Natale: ci saranno luci, ci saranno feste, alberi luminosi, anche presepi... tutto truccato». Hai capito? Tutto truccato, perché svuotato del senso religioso autentico. L’unica cosa che vincerà sull’Islam non sono le espulsioni, i controlli e tanto meno le bombe, ma solo una ripresa forte della nostra coscienza e della nostra identità cristiana. Non contro di loro, ma per convinzione intima che nasce dalla presa d’atto che stiamo andando per una strada sbagliata. Ci vedono vivere come se Dio non ci fosse, constatano che stiamo calpestando i valori morali, che non teniamo in considerazione alcuna legge, che abbiamo abolito tutti i limiti e così non ci rispettano come accade per te che ti stai guadagnando non solo il rispetto, ma anche la fiducia e l’amicizia dei mussulmani. Con i tuoi 140 cattolici del Niger pregate molto per noi. Perché ci convertiamo. A voi l’augurio di un Natale veramente buono, anche nella sicurezza e in pace.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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