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I monumenti che resistono

di Luigi Del Favero

Sono ingombranti e talvolta decisamente brutti, capita anche che ostacolino il traffico o impediscano il restauro di una piazza. Ci si dimentica presto di coloro ai quali sono intitolati e per questo versano spesso nel degrado da cui li strappa una ricorrenza centenaria nella quale si procede ad un costoso restauro che concede una proroga nella loro stentata esistenza.
È la sorte dei troppi monumenti che appesantiscono le nostre città e si infilano anche nei paesi che ambiscono a diventar città. Talora sono sorti per un atto doveroso di riconoscenza verso chi è stato benemerito nei riguardi della comunità o della patria ed ha illustrato la propria terra o con la scienza o con le arti o con gesta degne di fama. Altre volte sono i soggetti stessi che provvedono ad assicurarsi il monumento. Questa è l’ossessione di tutti i dittatori, che non temono il ridicolo, ma è una preoccupazione che può accompagnare, anche in forme eleganti, ogni genere di potere. Anche alcuni ecclesiastici hanno preparato il monumento da lasciare nelle chiese ad affollare le navate. Dicono che tutti costoro percepiscono in modo inconscio che quanto hanno fatto non è in realtà granché, ma non tollerano l’idea di poter essere dimenticati, senza lasciare un segno del proprio passaggio. Per questo si affannano a dettare il testo da incidere sulle lapidi, predispongono il materiale del proprio monumento che affidano ad un artista valido. Storicamente così sono nate le piramidi che dovevano eternare la gloria dei faraoni e Michelangelo ha scolpito il suo Mosè per il monumento di papa Giulio II. Ma raramente si raggiungono tali risultati.
Oggi il gusto è cambiato e quando si vuole ricordare una persona si pianta un albero. Sono famosi quelli che ricordano i «Giusti delle Nazioni» nel giardino della memoria a Gerusalemme. La cosa rispetta le esigenze ecologiche e corrisponde ad una nuova sensibilità. E poi l’albero, creatura viva, continuerà a fare del bene: fornirà ossigeno alla città, offrirà ombra nei giorni assolati e riparo in quelli di pioggia, abbellirà il paesaggio arricchendolo di verde prezioso, presterà i rami agli uccelli del cielo che vi costruiranno nidi e ricambieranno l’ospitalità ricevuta con concerti gratuiti. Il nostro gusto preferisce dunque gli alberi.
Ma lasciando da parte monumenti e alberi che funzionano da memoriali, resta vivo in ognuno di noi un umanissimo bisogno di essere ricordato, di lasciare una traccia, di sopravvivere anche quando la morte avrà compiuto la sua opera di inesorabile "livella". Per molti genitori l’esigenza è pienamente soddisfatta dal pensiero dei figli e dei nipoti che abiteranno la loro casa, porteranno il loro nome, godranno di quanto hanno fatto. Mentre elencavo a un’anziana signora il tanto lavoro compiuto nella sua lunga vita, le fatiche e i sacrifici sopportati, le decisioni difficili prese con coraggio, sono stato interrotto dalla sua voce sicura: «E ho fatto i miei figli!». Altri sanno – è frutto di profonda saggezza raggiunta negli anni o di istruzione diretta dello Spirito di Dio – che l’amore dura in eterno e che ciò che è compiuto nell’amore è custodito per sempre. Per loro non è essenziale aver fatto una cosa o un’altra, essere vissuti in un posto o in un altro, ma solo aver amato. Tutto scomparirà, le opere grandi sprofonderanno nella dimenticanza, verranno discusse, criticate, sospettate di falsa grandezza; solo l’amore resta.
Per raggiungere la pace che dona una tale convinzione bisogna aver partecipato al funerale del proprio orgoglio e aver accettato di vedere che il proprio contributo alla vita, realizzato svolgendo la missione irrepetibile affidata ad ogni uomo, è confluito in un’opera comune. È segno di maturità conquistata e manifestazione di serenità profonda ritenere l’opera comune più importante del contributo individuale.
Nella vita c’è stato un tempo per la costruzione della propria identità; la volontà è stata autoaffermativa e ha affrontato anche dei conflitti – forse già con i genitori – per esaltare l’individualità. Quel tempo è stato necessario ed è stato provvidenziale ogni aiuto ricevuto per amare il nostro nome, per conoscere i nostri doni, per manifestare le nostre possibilità.
Guai però bloccarsi a questa fase. Se uno impiega le proprie energie per esaltare in modo esclusivo se stesso, compie disastri. Se è sposato manda in crisi il matrimonio; se ha compiti direttivi, diventa facilmente un padrone degli altri; se viene eletto a qualche carica vuole essere originale a tutti i costi, diventando un piccolo creatore che alla fine aggiungerà il suo all’elenco di tanti fallimenti. Se è un uomo di Chiesa avrà oscurato il Vangelo e tradito un ministero che ha senso solo in quanto rimane un servizio. Lo troveranno sempre stanco e deluso perché ha speso tutte le sue forze nel sostenere e affermare se stesso; non si perdonerà gli inevitabili sbagli compiuti che farà fatica ad ammettere perché li sente come una minaccia alla solidità del proprio monumento.
Alcune persone, quando se ne vanno, anche quando partono definitivamente obbedendo alla chiamata della morte, lasciano dietro a sé una indicibile pace, una strana letizia che tutti avvertono, rimanendone come contagiati, anche senza conoscerne l’origine. Queste persone non hanno bisogno di monumenti, non cercano premi, non pubblicano memorie. A loro basta aver amato.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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