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Da Charles de Foucauld al Vescovo

«Illustrissimo Vescovo,
io non sono della vostra diocesi, ma la scorsa notte in paradiso ho sentito canti provenire da lontano, voci che giungevano allegre ed entusiaste: erano i missionari di Belluno–Feltre. Fra di loro c’erano Rubelio, Luigi De Nicolò, Vittorina, Emilio Canova, Sira, Alessandro Cengia, Giovanni Belli, Sergio Buzzatti, Francesco Cassol, Claudio Sacco e tanti altri. Claudio, in modo particolare, trascinava gli altri nel canto, come un vero maestro di musica.
Mi hanno spiegato che quel giorno era stato consacrato il nuovo Vescovo per la loro diocesi e pertanto erano in festa e mi hanno invitato a passare a casa loro.
Qui in paradiso ognuno ha una sua casa e la costruisce come vuole, con la sola forza del pensiero. Essi avevano costruito una casa abbastanza grande, da poter vivere tutti insieme. Ne avevo viste di case, di tutti i tipi, di tutte le grandezze e colori; mai una così... Era costruita con sassi e travi segati a mano. Mi hanno spiegato che avevano dovuto chiedere gli attrezzi a san Giuseppe, uno dei pochi che qui in paradiso usa ancora gli arnesi necessari per questo lavoro.
La porta non c’era...
«Eh sì», mi fanno loro, «abbiamo deciso di non mettere le porte, di modo che chiunque possa entrare e, se non ci siamo, possa aspettare dentro».
Le finestre non avevano le tende.
«Per poter vedere sempre fuori il paesaggio e, se arriva qualcuno, possiamo andargli incontro!».
Le cose più strane però erano due: il tetto e il pavimento.
Il tetto semplicemente non c’era.
«Se ci fosse il tetto non si potrebbero vedere le stelle», mi disse uno.
«A noi piace vedere le stelle», disse don Francesco Cassol. «Dal passo Duran, nelle notti d’inverno, potevamo guardarle come in pochi posti al mondo. Quando arrivava la stagione fredda, il cielo era così terso da poter vedere anche le stelle più lontane. Da qui poi riusciamo a vedere bene anche le nostre vecchie case sulla terra, le montagne dove siamo nati e i deserti, le foreste, ma soprattutto la nostra gente in continenti così diversi, dove abbiamo amato pregato e condiviso».
In casa non c’era neanche il pavimento o, meglio, era di sabbia. Sì, Monsignore, ha capito bene: non terra, ma sabbia. Sabbia del Niger, dov’è missionario don Augusto. E il legno che avevano usato era tec, per ricordarsi di don Bruno in Thailandia.
In mezzo alla stanza c’era un "larìn", un focolare tipico delle loro parti. Lo avevano costruito con pietre di tutti i colori: pietre di Castellavazzo, di Cugnan, delle Marmarole, del Comelico, dei Piani Eterni e di ogni paesino della diocesi; c’era perfino un blocco di dolomia, staccato dalla Tofana di Rozes e pervenuto per i buoni uffici di don Giuseppe Pedandola; ma ce n’erano anche dal Brasile, dall’Ecuador, dal Messico, dalla Costa d’Avorio... Ci siamo seduti intorno al crepitio del focolare. Abbiamo intonato canti di montagna e infine il Magnificat, come si usa da voi, secondo la bella partitura di mons. Mario Coletti. Poi si è fatto silenzio. Eravamo tutti intenti a guardare la fiamma.
«Mi ha sempre colpito la fiamma del fuoco», mi disse la più vecchia, quasi sussurrando. «Il fuoco incanta. Forse perché è imprevedibile inafferrabile, luminoso... come Dio».
Poi senza uscire, semplicemente guardando dal soffitto (che non c’era!), abbiamo osservato la terra. Don Sergio Buzzatti mi dice sottovoce: «Ci piace guardare la terra con i suoi deserti, i suoi oceani, le sue montagne. Ci piace anche guardare il bene che sale al cielo dalla nostra gente: la terra della diocesi di Belluno–Feltre e quella delle nostre missioni. È gente buona, sai!».
Era notte nella vostra diocesi, le luci nelle case si spegnevano, i bambini erano già a letto. Un genitore passava silenzioso a dare l’ultimo bacio ai figli prima di andare a dormire anche lui. Qualche anziano, riottoso ad addormentarsi, recitava il rosario. Insieme a lui, ci unimmo anche noi, pregando per voi tutti e per il cammino che farete.
Stavo per allontanarmi, per tornare a dormire nella mia casetta, ma gli altri mi hanno trattenuto.
«Fermati a dormire da noi. C’è sempre una stuoia per gli ospiti».
Mentre mi addormentavo, ripensavo ai miei curiosi ospiti. I loro gesti, le loro parole, la loro casa mi avevano fatto venire in mente una cosa, che avevo pensato nel deserto dei Tuareg: «Tutti i nostri atti, tutta la nostra vita devono gridare che apparteniamo a Gesù, devono presentare l’immagine della vita evangelica. Tutto il nostro essere deve essere una predicazione viva, un riflesso di Gesù, un profumo di Gesù; qualcosa che gridi Gesù, che faccia vedere Gesù, che risplenda come un’immagine di Gesù...».
È la mia preghiera per Lei, Monsignore, e per i suoi nuovi compagni.
fratel Carlo di Gesù»

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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