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Notti differenti

di Luigi Del Favero

Elie Wiesel è entrato nella sua seconda "notte". Questa che ha raggiunto sabato 2 luglio, passando attraverso la porta della morte, è ben diversa dalla prima, lunghissima e dolorosa, che egli attraversò totalmente da ragazzo e da adolescente nei campi di sterminio nazisti, finendo ad Auschwitz. La descrisse parecchi anni dopo in uno dei libri più celebri e più importanti del Novecento che non poteva portare altro titolo che «La Notte». Wiesel era un ebreo nato in Romania, fra i monti Carpazi che impressero nella sua anima l’amore per il silenzio, la solitudine, la religiosità, una cultura umanistica spontanea e dolce; conobbe la peregrinazione nei ghetti e nei campi di sterminio dove perse i suoi; uscito vivo da quella prova si radicò in Francia per poi trapiantarsi in America dove è morto. Ricevette il premio Nobel non per la letteratura, ma per la Pace.
Di quella prima "Notte" scrisse cose terribili che conviene sempre ricordare: «Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia fede. Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e i mei sogni, che presero il volto del deserto». E poi rileggere ancora una volta quelle righe tra le più citate nel nostro tempo: «Dietro a me sentii il solito uomo domandare: Dov’è Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca. Appeso a quella forca c’era un bambino, ancora vivo per un soffio di tempo». Quante pagine di teologia sono state scritte per commentare queste parole! Forse la più densa l’ha formulata papa Ratzinger ‐ un papa tedesco ‐ quando visitò Auschwitz e disse parole impressionanti sul silenzio di Dio.
Sabato, a Boston, Wiesel è entrato nella "notte" infinita che attende ogni uomo. Se la prima l’ha descritta lasciandone una memoria dura, precisa e incancellabile, verso la seconda, attesa a lungo e forse desiderata, si protese solo con alcune intuizioni che espresse splendidamente in una recente intervista. La Tv l’ha opportunamente riproposta ieri, come commento alla notizia della morte dello scrittore. Il giornalista aveva chiesto a Wiesel come si immaginava la sua vita dopo la morte e se ci fosse stata una vita. L’anziano Nobel per la Pace rispose di pensare che quando moriremo noi ritorneremo, in qualche modo, bambini. Lo disse con parole sfumate, aggiungendoci quelle espressioni: «come» e «quasi» che sono tipiche di chi è consapevole di non descrivere realtà di cui si ha esperienza sensibile, ma che sono solo intraviste. Tuttavia il dire che ritorneremo come bambini fa riferimento ad una cosa bellissima in cui c’è la freschezza delle origini, la caduta delle incrostazioni del male e delle imperfezioni accumulate durante l’esistenza, il ritorno al progetto iniziale con l’identità più vera. L’intervistatore incalzava: «E dove va questo bambino?». Lo scrittore ha risposto con uno scatto: «Con quelli che lo hanno amato: ritroverà i suoi. Io rivedrò mio padre e mia madre. Mio padre in particolare, che è morto tanto tempo fa, è sempre stato vicino a me. Nella solenne cerimonia di Oslo in cui mi fu conferito il Nobel per la Pace, al momento in cui dovevo parlare, io vidi nitidamente mio padre nella sala. Per due o tre lunghissimi minuti non riuscii a dire neppure una parola, restando immobile a fissare mio padre, della cui presenza non ho alcun dubbio. Quelli che ci hanno amato restano con noi e continuano a seguirci».
Gli occhi del vecchio Wiesel brillavano mentre diceva queste cose e lo sguardo chiedeva ascolto, rispetto; imponeva di fermarsi senza giudicare e senza interpretare le parole che esprimevano la sua speranza di ebreo cresciuto in un mondo dalla religiosità intensa.
Un cristiano può farle sue? Le può condividere e soprattutto può nutrire la stessa speranza.
A chi gliene chiedesse ragione risponderebbe con la mitezza buona di Wiesel e con l’umiltà di chi non ha in tasca una teoria scientifica che dovrebbe convincere tutti. Gli basta credere alle parole con le quali prega: «Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti e tutti i giusti che, in pace con te, hanno lasciato questo mondo; concedi anche a noi di ritrovarci insieme a godere per sempre della tua gloria». Dunque chiede di ritrovarci insieme: la fede ce lo promette.
E infine perché quel Nobel per la Pace? Wiesel lavorò intensamente per la riconciliazione tra i popoli e dichiarò la necessità del perdono. Anche del passato, ben sapendo che contiene pure i nemici e addirittura i carnefici. La memoria non lo deve dimenticare e tuttavia si può perdonare. È l’unica strada non per ottenere un Nobel, ma per essere uomini che hanno attraversato la "Notte" e sono giunti alla luce.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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