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Corvi e cicogne

di Luigi Del Favero

Nel prato adiacente alla strada l’erba era appena stata tagliata. Decisione opportuna nel primo giorno di tempo bello, destinato ‐ nelle previsioni ‐ ad aprire una serie di giornate che favoriranno la fienagione, così come viene realizzata in montagna. Passando accanto in auto, ho rallentato fino a fermarmi per alcuni istanti per guardare un lavoro ben fatto. Ho pensato subito ad una persona paziente che aveva tagliato l’erba senza fretta, lasciando sul terreno lunghe righe ordinate e omogenee di erba dal tipico odore o profumo che segnala il taglio appena avvenuto. È una condizione che per evidenti motivi richiama molti uccelli che trovano con facilità insetti e semi di cui nutrirsi. Conosco il loro nome, ma solo in dialetto, per cui non lo trascrivo, facendo cenno soltanto ai corvi. Il colore nero li segnalava immediatamente: erano numerosi e a differenza degli uccelletti che saltellavano, i corvi procedevano camminando sul terreno, insolitamente silenziosi. Sono goffi i corvi quando camminano perché dondolano assumendo un aspetto che a noi pare ridicolo. Avanzavano allineati come operai intenti ad un qualche lavoro o piuttosto come soldati che stanno compiendo una perlustrazione o si dispongono ad un’operazione concertata. Li ho fissati divertito augurando loro il ’buon appetito’ dato che beccavano in continuazione gli insetti improvvisamente atterrati, senza riparo, dal taglio dell’erba. Riprendendo la strada, sono andato molto lontano. La memoria mi ha riportato in una situazione che aveva qualche somiglianza con quella appena vista. Ero stato lasciato per un giorno in un villaggio della Russia Bianca, ospite dei nonni di un nostro seminarista, nativo di quel paese, impegnato per tutta la giornata in qualche altra occupazione. Mi aveva sistemato nella casa ‐ una vera isba ‐ dei nonni, cordialissimi contadini, ora morti, che non dimenticherò mai. Vivevano in quel minuscolo villaggio di case tutte addossate l’una all’altra, come perso nella pianura sconfinata. Il villaggio aveva come unica ricchezza alcuni pozzi e una piccola chiesa cattolica. Lì vivevano una vita semplicissima, forse simile a quella dei nostri vecchi un secolo fa o ancora più lontano nel tempo. Eppure quei cari vecchi erano scrigni di vera storia. Il nonno aveva fatto parte dell’Armata Rossa e nel 1945 era entrato anche lui vittorioso a Berlino, dove finalmente aveva mangiato: era il suo unico ricordo. La nonna era la memoria vivente di decenni di persecuzione religiosa che rievocava con lacrime e con orgoglio. Mi hanno fatto mangiare tanto, ma c’era quella benedetta lingua che non permetteva di capirci. Poiché il linguaggio dei gesti aveva esaurito le sue possibilità, ero uscito nella campagna durante un pomeriggio caldissimo. Eravamo a fine luglio ed eravamo nei giorni della trebbiatura. A scuola ci avevano insegnato che quelle pianure erano il "granaio d’Europa" e io lo potevo constatare guardando trebbiatrici enormi al lavoro in spazi che parevano senza confini. Avvicinandomi, avevo visto che le trebbiatrici erano seguite, a breve distanza, da uno stuolo di cicogne che attirarono la mia curiosità. Cosa mangiano così avidamente? Cosa c’è per tanti di questi uccelli ben più grandi dei nostri corvi? Volevo capirlo, accostandomi sempre più, avvolto da fastidiosissimi insetti. Arrivato abbastanza vicino, fui notato dagli operatori che dall’alto di quelle macchine enormi e piuttosto vecchie, con voci forti e gesti energici mi fecero capire che dovevo andarmene immediatamente. Mi sentii cacciato via e ebbi un po’ di paura perché le voci mi erano parse cattive. A sera, raccontai la cosa al mio giovane amico, chiedendogli una spiegazione. Mi disse che l’avevo scampata bella perché quei campi sono infestati da serpenti e soprattutto da vipere e che le cicogne, al seguito delle trebbiatrici, li trovavano facilmente facendone vere scorpacciate. Altro che i poveri grilli che beccano i nostri corvi. Così ricevetti la mia dose di rimproveri per l’imprudenza con cui avevo agito.
Tutta colpa della lingua! Fu la mia reazione di allora e rimane la costatazione sulla quale rifletto oggi. Quando non ci si intende nascono gli equivoci e seguendo le nostre idee stravolgiamo il significato di quello che gli altri vogliono comunicarci. Avevo preso per insulti rivolti a me, straniero, dei segnali energici gridati per il mio bene. A quanti di questi equivoci andiamo incontro oggi nella difficile convivenza con stranieri che non dobbiamo più andare a cercare lontano? Il pane, le medicine, i vestiti sono importanti; la comunicazione lo è ancora di più. Loro ‐ gli immigrati ‐ devono obbligatoriamente imparare la nostra lingua; noi dobbiamo conoscere qualcosa della loro cultura.
Ma non ci sono solo gli stranieri, profughi o immigrati o turisti con cui capirci. Può esserci sconosciuto il linguaggio dei nostri stessi giovani e ci troviamo in grande difficoltà ad entrare nel loro mondo. Prima di giudicare e soprattutto prima di colpevolizzare c’è da ascoltare attentamente, da capire, da accordare fiducia. Ciò che ci unisce al di là dell’età, della razza, del colore della pelle, della cultura è molto più forte. È la comune umanità. Quella che muoveva dei ruvidi contadini russi a mettermi in guardia contro il rischio delle vipere delle quali le cicogne non avevano invece paura. Forse il pasto le irrobustiva per avere forza nel portare ancora tanti bambini!

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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