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Una chiesetta anonima?

di Luigi Del Favero

Dando la notizia che ha fatto immediatamente il giro del mondo, della morte di padre Jacques Hamel, il prete cattolico ucciso durante la Messa nei pressi di Rouen, in Francia, l’annunciatore di un nostro telegiornale ha descritto il fatto come avvenuto in un’anonima chiesetta della Normandia, indicando la chiesa di St. Etienne. Pur nell’emozione creata dal drammatico fatto, non mi è sfuggita la contraddizione nelle parole del giornalista e l’inesattezza del linguaggio che definiva ’anonima’ quella chiesa. Certamente la sostanza era molto seria, tragica addirittura, e non era il caso di essere troppo esigenti e raffinati sulle parole. Tra l’altro rispetto ad altri errori, talvolta gravi, in cui incorrono coloro che trasmettono le notizie, specie in materia di religione, qui si trattava di un piccolo peccato veniale. Il senso dell’aggettivo ’anonima’ era evidente: voleva indicare che quella chiesa non aveva rinomanza né artistica né storica ed assomigliava a tante altre di cui è disseminata la cattolicissima Normandia. Tuttavia ha sbagliato a definirla così perché nessuna chiesa è ’anonima’. Senza rendersene conto, lo riconosceva lo stesso giornalista che aveva parlato della chiesa di St. Etienne, cioè di Santo Stefano. Ora quella chiesa, luogo di un vero martirio, avrà fama ben più alta di quella che conferiscono l’arte o la storia o la stessa religiosità popolare.
Ma riprendo per qualche istante il sentiero aperto dalla questione del nome. È cosa bellissima e risaputa che ogni chiesa cristiana possiede il proprio ’titolo’ ed ha quindi un ’titolare’. Abitualmente si tratta di un Santo, spesso della Madonna invocata appunto sotto vari titoli. Talvolta la fonte è un mistero particolare della vita di Cristo. Non c’è infatti chiesa, grande o piccola, senza nome. I cristiani lo sapevano ed erano solitamente orgogliosi del nome della propria chiesa. Ne avevano sentito raccontare l’origine, che poteva essere assai originale, e celebravano come una festa grande il giorno del proprio titolare, senza fare confusione: era la festa del proprio Patrono ed era, in qualche modo, il giorno onomastico della propria chiesa. E c’era un’altra festa da celebrare nell’anniversario della ’dedicazione’ della chiesa, per ricordare la data in cui l’edificio sacro era stato consacrato a Dio, in onore del tal Santo. E di nuovo appariva il nome!
Mi accorgo che sto scrivendo usando i verbi al passato e me ne rincresce molto. Sto commettendo un errore e questa volta si tratta di un errore grave che potrebbe trasmettere l’idea che il Cristianesimo è la religione del nostro passato, dove i nostri edifici sacri sono equiparati ai musei. Il Cristianesimo invece è la religione del futuro. Lo è per sua natura perché è tutto proteso al ritorno di Cristo e impegnato nell’attesa e nella costruzione attiva di "cieli nuovi e terra nuova". In alcuni momenti della storia tutto questo si rende visibile, quasi sperimentabile. Noi oggi viviamo uno di tali passaggi. Lo attestano i giovani di ritorno da Cracovia dove hanno incontrato coetanei di tutto il mondo (e si tratta di una grande novità) ed hanno ascoltato papa Francesco, comprendendo bene il suo appello a non andare nel museo e a non amare il divano.
La chiesa – ogni chiesa con il suo nome proprio – ci trasmette la coscienza di un’appartenenza e ci aiuta a costruire un’identità. Mi dice infatti il nome della mia comunità e mi comunica l’indirizzo del luogo dove possiamo incontrarci. Una comunità, anche piccola, che si incontra per pregare, in un clima di cordialità, di fraternità, di appartenenza, oggi è molto contagiosa. E ci viene spesso ripetuto che il Cristianesimo oggi si diffonde unicamente per contagio. La visita ad un’antica cattedrale, ricca di arte, avvolta nella penombra e lontana dal frastuono, riempita dalla voce solenne di un organo suonato con maestria, può suscitare un sentimento religioso e accendere la nostalgia. Ma tutto si ferma lì. L’incontro con una comunità viva, anche povera, dove si prega, si canta insieme, compiendo alcuni gesti semplici e conosciuti da tutti – il segno di croce, lo scambio della pace, l’inginocchiarsi, i passi verso l’altare per la Comunione – dove soprattutto si è riconosciuti come fratelli e quindi ci si sente a casa, ha la forza di coinvolgere.
Queste non sono idee alle quali arrampicarsi per trovare una formula che ci assicuri che il Cristianesimo vivrà. Ho vissuto tutto ciò nelle domeniche di agosto nella chiesa di una località turistica affollata, dove anche le Messe sono state molto frequentate. La percentuale sul totale delle presenze non ci deve interessare più di tanto. Ho letto che in questa estate monasteri e centri di spiritualità, anche molto austeri, dove è stile la sobrietà, sono stati ricercati non per vedere qualcosa, ma per incontrare monaci e monache e vivere qualche giorno con loro. Ho ascoltato i ragazzi di ritorno da Cracovia con la novità di quel contagio benefico. Sono entrato in contatto con giovani che hanno dato i giorni delle loro vacanze per animare i bambini ospitati in un campo per profughi. Date la parola ad ognuno di questi per chiedere dove si ricarica la loro appartenenza alla fede: facilmente vi diranno il nome di una comunità e insieme il nome di una chiesa, col suo prete, che è la propria casa. Poiché non esistono chiese anonime.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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