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Lasciando dietro a sé una strana letizia

di Luigi Del Favero

Letizia? Non è meglio dire ’gioia’? La lingua italiana sarebbe più contenta e anche il nostro attuale gusto. Eppure nella frase citata e posta come titolo del pensiero di oggi è più opportuno parlare di letizia. È quella che lasciano dietro di sé alcune persone quando muoiono. Non è un dolcificante per il dolore di chi piange, anzi può aumentare la nostalgia; non è neppure una facile risposta al "perché" sollevato dalla morte, specialmente in alcune situazione più drammatiche. Questa letizia non si nutre neppure del ricordo delle cose buone o della grandezza o della fede di chi ci ha lasciato e non ha bisogno di idealizzare i nostri morti diventati improvvisamente buoni e generosi o, per usare una parola che oggi piace molto, "solari". Nasce altrove e per questo è un po’ strana, ma talvolta la si percepisce bene.
L’ho sentita poche sere fa facendo visita al vecchio cimitero di San Marco nel mio paese. Volevo salutare mia madre che da una settimana ha come vicino, nella sepoltura in terra, un uomo morto improvvisamente in età ancora giovane. Una morte la sua che ha colpito molti anche perché arrivata alla sera del 1° settembre, dopo aver partecipato alla bellissima ’Giornata per la custodia del Creato’ celebrata con il Vescovo e alcune centinaia di fedeli in Val Visdende. In quel momento mi sono trovato accanto alla vedova di questo amico, la quale, forse per la prima volta in quei giorni, ha sollevato gli occhi gonfi di lacrime verso i nuovi "compagni" del marito. La più prossima è appunto mia madre, poi un’altra donna alla quale unanimemente i paesani hanno applicato la beatitudine evangelica della mitezza e, in capo alla fila, un gelatiere rimasto legato alla sua comunità. Anch’io avevo gustato alcune volte il suo gelato, appena al di là del ’Ponte dei Nibelunghi’, costruito sul Danubio che attraversa Ratisbona. Lo sguardo della signora che avevo accanto colse immediatamente un particolare che non avevo notato e commentò: «Eccoli qui, tutti e quattro insieme, come per tanti anni si sono trovati insieme alla Messa domenicale». Mi sono ricordato allora che una cosa simile l’aveva detta anche il parroco, affermando che ad ognuna di quelle morti corrispondeva un posto vuoto in chiesa. Posti vuoti che non vengono riempiti.
In quell’istante ho intuito l’origine della strana letizia che nonostante tutto ci aveva afferrato mentre facevamo quella considerazione. È vero che la cornice dell’ora aiutava la serenità: una sera di settembre straordinariamente mite, limpida, silenziosa, capace di avvicinarci le nostre montagne che, senza essere famose, sono molto belle. Ma era solo una cornice che restava esterna e non aveva forza di parlare al cuore. L’intuizione diceva che la strana letizia che ci afferrava mentre parlavamo sottovoce e pregavamo, non viene dal passato, ma dal futuro. Quelle care persone che stavamo ricordando, così diverse per età ed esperienze di vita, avevano condiviso la Fede e, professandola insieme ogni domenica per tanti anni, avevano rafforzato una speranza. Adesso i loro corpi, composti come si sta in chiesa e con il volto idealmente rivolto al Cielo, attendono la risurrezione con la forza serena nella quale con le labbra hanno ripetuto in ogni Messa: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Non abbiamo nessun bisogno di proclamare quel "Santo subito" che forse non è del tutto cristiano. I Nostri non erano perfetti, però sono partiti sapendo dove andavano, precedendoci su una strada che conduce ad una meta verso la quale noi camminiamo ancora, certi di essere attesi da loro, che sono andati a prepararci un posto, non in cimitero, ma in Paradiso.
Se cancelliamo tutto ciò dalla nostra Fede saremmo i più poveri di tutti gli uomini; togliamolo dalla cultura dei nostri paesi e li renderemo più tristi privandoli di una forza di coesione che si rinnova, in modo molto normale, di settimana in settimana. Proviene da qui il lamento frequente che constata che anche nei paesi ci conosciamo meno, ognuno pensa a se stesso, c’è più egoismo e, alla fine, denuncia una dolorosa solitudine che avanza nella nostra terra.
«Quando muore un santo, è la morte che muore». È un’antica affermazione cristiana che il carmelitano padre Antonio Sicari ha collocato all’inizio dell’ultimo dei suoi bellissimi libri ‐ una quindicina ‐ dedicati ai ritratti di Santi. Domenica scorsa, a Lamon, ho ascoltato dalla sua viva voce un commento convincente e commosso di tale frase, che può essere leggermente modificata così: «Ogni volta che un cristiano muore, è la morte che muore». La morte lo ha ghermito; ferendolo, gli ha fatto male, ma si è trovata tra gli artigli Cristo stesso che rivive nel suo fedele la propria morte e così fa morire la morte. I più anziani ricorderanno: «Qui mortem nostram moriendo destruxit» e i più giovani hanno sicuramente cantato a Pasqua: «Ho visto morire la morte, ecco cosa ho visto fratello mio». Parole inusuali, strane o forse addirittura assurde per il mondo. Ci spiegano perché i credenti lasciano dietro a sé quella strana letizia percepita come una grazia in una sera di settembre, in un piccolo cimitero di montagna.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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