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martedì 23 Aprile 2024,

«Sanità e sociale, il Covid ha acuito le criticità. Bisogna ripensare il sistema»

Il punto durante la videoconferenza di oggi, lunedì 26 ottobre, organizzata da Cgil-Spi-Fp.

Negli ospedali pesano la carenza di specialisti, poco “attratti” dal difficile contesto montano della provincia di Belluno, e la riduzione dei posti letto. Ma c’è anche tutta la rete dei servizi sul territorio – dall’assistenza domiciliare integrata alle strutture intermedie, passando per le case di riposo – che non se la passa troppo bene. Tutte criticità che il Bellunese conosce bene, purtroppo, e che sono state acuite dall’emergenza Covid-19. «Questa grande crisi imporrà un ripensamento complessivo del sistema. Sono stati messi in evidenza punti deboli, con problematiche fino a gennaio di quest’anno nemmeno ipotizzabili», ha detto il direttore generale dell’Ulss 1 Dolomiti, Adriano Rasi Caldogno, durante la videoconferenza organizzata da Cgil-Spi-Fp. Videoconferenza dal titolo “Sanità contemporanea – Ricerca Ires e l’allarme Covid”, partita con una domanda che è sulla bocca di tanti e che, forse, non si ha il coraggio di fare: «La sanità è preparata a rispondere alla nuova ondata del contagio da Covid-19?».

L’elemento centrale del dibattito sono stati i dati della ricerca che Ires Veneto (ente di ricerca della Cgil Veneto) ha raccolto sullo stato di attuazione del Piano socio-sanitario regionale, in particolare sullo stato di integrazione dei servizi, tra ospedale e territorio, fondamentali per garantire l’assistenza continuativa ai malati, la cura delle cronicità (purtroppo presenti in modo elevato) e l’azione di prevenzione. «Con lo studio ci chiediamo quali aspetti della pianificazione vadano rivisti, soprattutto alla luce dell’emergenza che stiamo vivendo», ha evidenziato Barbara Bonvento, ricercatrice Ires Veneto. «L’integrazione dei servizi socio-sanitari riveste un ruolo fondamentale, per garantire la continuità delle cure dall’ospedale al territorio e viceversa. Continuità, ma anche appropriatezza e tempestività».

L’emergenza Covid lo ha evidenziato: il Sistema sanitario nazionale non può seguire il modello “ospedalocentrico” ed è indispensabile migliorare l’assistenza territoriale, portare avanti una politica di integrazione su più livelli, cercare di rendere flessibili gli interventi sul territorio. «In emergenza, il modello socio-sanitario veneto ha mostrato i suoi punti di forza, come il potenziamento dei Dipartimenti di prevenzione e una gestione fondata sul distretto socio-sanitario», ha detto ancora Bonvento. «Purtroppo, però, ci sono ancora parecchie cose che non funzionano. Per esempio, si rischia di rimanere nel letto d’ospedale più del dovuto per la mancanza di posti, o di capacità di cura, in altre strutture». «La lunghezza della degenza media in Veneto (7,85 giorni), e anche negli ex distretti di Belluno (8,29) e Feltre (7,27), è superiore alla media Italiana (7 giorni)», ha fatto presente Mauro De Carli, segretario provinciale della Cgil Belluno. «Ciò è significativo di una difficoltà per la gestione successiva del malato dimesso».

Ad accentuare le criticità c’è il fatto che il paziente anziano, in provincia, rappresenta il 26,8% della popolazione. «Alcune stime attestano che il 7,68% degli anziani (circa 4.168 persone) nell’Ulss 1 Dolomiti si trova in situazioni di non autosufficienza», ha precisato Bonvento, «e che il numero delle persone disabili è circa 7.770. Nel territorio bellunese l’indice di vecchiaia è il secondo più elevato a livello regionale; per quanto riguarda l’indice di dipendenza, il Bellunese è tristemente al primo posto».

Sul fronte delle cure primarie, lo studio evidenzia che nel 2011 per ogni medico di medicina generale c’erano 1.248 assistiti, mentre nel 2018 si è saliti a 1.334 (+7%). Ogni pediatra ha in carico mediamente 771 bambini. Se nel 2017 le zone carenti erano 17, nel 2020 sono passate a 27. Gli incarichi vacanti per la medicina di continuità assistenziale sono passati da 32 a 41.
L’assistenza domiciliare integrata presenta in Veneto interventi di maggiore complessità rispetto ad altre realtà regionali. Dal 2017 al 2018 il numero di utenti trattati in Adi è aumentato nel Bellunese del 6,07% ed è diminuito nel Feltrino del 3% (qui, però, sono aumentati del 9,3% gli accessi). Rispetto alle altre Ulss del Vento, la percentuale di pazienti trattati con alti livelli ci intensità assistenziale, dato che qualifica la dimensione del bisogno, è molto superiore: 7,89% in provincia rispetto al 2,54% del Veneto.

«Dal 2013 al 2019 si sono persi 113 posti letto», ha continuato Bonvento. «Il fatto più eclatante è l’azzeramento dei posti in lungo-degenza, recuperati nella parte riabilitativa. Nelle strutture intermedie, il realizzato è inferiore al programmato. E poi ci sono le Rsa, per cui i problemi principali stanno nei posti letto e nelle impegnative di residenzialità. Lo studio Ires mostra che il paziente ricoverato nell’Ulss 1 ha un grado di complessità maggiore rispetto ad altre Ulss del Veneto: la percentuale di pazienti a cui sono stati erogati trattamenti intensivi è infatti del 12,41%, contro il 3,59% regionale. Ma il numero di impegnative erogate per la media intensità è 48 contro 116 posti letto nel distretto di Belluno e 24 contro 66 posti letto in quello di Feltre».

«Bisogna precisare quali sono i vincoli per cui ci troviamo in questa situazione che presenta diversi punti deboli», ha sottolineato Rasi. «Dobbiamo partire dal decreto ministeriale 70 del 2015, che ha introdotto parametri obiettivi che valgono a 360 gradi in tutta Italia, con dei piccoli correttivi per quanto riguarda le zone disagiate, come la provincia di Belluno. Il decreto 70 è figlio di una situazione iniziata nel 2012, anno in cui le risorse da destinare alla sanità hanno iniziato ad essere bloccate. Uno stato di cose metabolizzato in questi anni, ma la gestione dell’emergenza Covid ha messo in grande rilievo gli elementi di debolezza del nostro sistema, che conta un numero di anziani considerevole e un carico assistenziale di tutto rilievo».

Insomma, la crisi impone di rivedere il sistema. «In primis bisogna rendere attrattivo il territorio bellunese per medici e personale sanitario», ha proseguito Rasi. «Su questo sono state fatte proposte, come l’introduzione nei Contratti collettivi nazionali di misure che consentano di incentivare in maniera non simbolica le persone che intendono lavorare in contesti di disagio, siano le aree montane o insulari. Resta il fatto che ancora per diversi anni ci troveremo di fronte il problema noto: la carenza di specialisti. E stiamo cominciando ad avere difficoltà non banali per infermieri e oss e anche per tecnici in alcune discipline».

«La preoccupazione aggiuntiva», ha fatto notare De Carli, «è quella di capire se il livello della prevenzione delle malattie “storiche”, quelle cardiache, dell’apparato respiratorio, tumorali, sarà mantenuto con lo stato di intensità perlomeno uguale a quello degli anni precedenti, o se invece l’allarme Covid e l’attenzione che ospedali e territorio dovranno riservargli comporterà una minore prevenzione».

Sui bisogni specifici del territorio bellunese ha insistito la segretaria dello Spi Cgil Maria Rita Gentilin, che per il sindacato ha anche la delega a sociale e socio-sanitario. «Manca una struttura leggera, intermedia, prossimale al luogo di cura», ha affermato. «La medicina del territorio deve immaginare un percorso più semplice per la riabilitazione. Gli ospedali di comunità non hanno ancora i posti necessari e, in questo periodo, si sono trasformati in luoghi per pazienti Covid, impedendo il trasferimento dall’ospedale al territorio. Si aggiunge il fatto che le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) non sono ancora attive in tutta la provincia».

E le Rsa? «I degente nelle Rsa non è più quello di vent’anni fa», ha fatto presente Gianluigi Della Giacoma, segretario generale Fp Cgil Belluno. «Ecco perché le strutture devono fare un salto di qualità, essere integrate nel sistema sanitario, per la presa in carico reale delle esigenze dei cittadini, perché quel livello di qualità potrebbe permettere di superare i gap durante la pandemia. La sfida che noi lanciamo è quella di riuscire a capire realmente come poter vedere un modello di sviluppo del servizio integrato in quello sanitario».

Paolo Perenzin, sindaco di Feltre, ha messo in risalto alciuni aspetti. «Se da una parte si va verso l’infermiere del territorio, dall’altra c’è tutta la drammaticità del personale che viene tolto dalle case di riposo», ha sottolineato. «Se oggi riuscissimo ad adeguare i percorsi formativi ai fabbisogni territoriali, gli effetti positivi potremo vederli tra qualche anno. E nel frattempo cosa facciamo? Da un lato dobbiamo lavorare subito sfruttando l’emergenza Covid e le criticità emerse per riprogrammare i posti e i fabbisogni; dall’altro, dobbiamo capire cosa si può fare nell’immediato. Come enti locali quando pensiamo a potenziare la sanità territoriale puntiamo sugli ospedali, dimenticando che l’aspetto più impegnativo è il versante della cronicità. Altra faccia della medaglia: bisognerà fare una battaglia politica seria affinché venga implementato il fondo della non autosufficienza a livello regionale. Necessario anche ripensare l’intera rete di assistenza agli anziani, mettendo al centro le Rsa, e si dovrà trovare il modo di potenziare il sistema territoriale».

Martina Reolon

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