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venerdì 16 Maggio 2025,

5. Fener

«Il futuro è già passato ovvero mi, Belun, i Belumat e le bele compagnie». 5a puntata

A Fener il nonno non solo aveva una casa in ghèto, ma anche un poderetto sulle grave della Piave e uno, magro, in costa, verso la Monfenera, appena oltre la statale, di fronte alla casa cantoniera. Il ghetto era un budello di strada che faceva da corte ad una serie di case tutte di pietra che vi si affacciavano, adibite ad abitazioni o càneve, con muri a secco e orti che ne limitavano lo spazio. In capo, sul confine con la strada principale, c’era la fontana cui tutti si rivolgevano. 

Fener, via alla chiesa.

L’acqua fu ‘tirata’ in casa a metà degli Anni ‘50 come pure, ma solo dai nuovi abbienti, furono realizzati i cessi. Il nostro fu costruito negli anni Sessanta, al primo piano dell’abitazione, quasi fosse un ‘optional’1 visto che quello nell’orto funzionava benissimo e consentiva la chiusura del ciclo biologico producendo anche fertilizzanti naturali. 

Di fatto col nome di ‘orto’ noi individuavamo una parte vitale dell’abitazione che comprendeva il pòrtego con pèrgola d’uva uliàdega2 affiancato alla càneva, il cesso (prima di canne, poi rifatto in muratura) con fossa e piccolo letamaio di pertinenza, un paio di vanéde, aiole per radicchio, insalata ed erbe profumate e qualche dalia, la porcilaia e poi uno spazio con la buca della calce, solitamente ben tamponata e un piccolo monte di sabbia con coppi e qualche mattone da ripristino; e ancora un salice e un melograno che servivano pure a tenere sospesa una seconda tettoia che proteggeva il pollaio e alcune gabbie per i conigli. In angolo, un blocco di pietre e mattoni con fornello alla base, adatto a sovrapporre la caldaia dell’acqua da scaldare per pelare il porco o lavare il vivo, per fare la lisia (lisciva) o il sapone o da tappare e svuotare per cuocervi un pane d’emergenza.

Il portico era la zona principale per i lavori di riassetto attrezzi e preparazione della legna. Sullo sfondo di tavole stavano fissati un numero infinito di oggetti: pialle, trivelle, sgorbie, tenaglie e martello con testa a V e scatoline con chiodi e ancora bullette d’ogni genere e clàmere; poi coltelli, roncole, coltellacci, accette, manère grandi e piccole, manerin; seghe a lama di più sorti e segon con a fianco la musa per caricare i tronchi da segare e a terra il ceppo sempre pronto con la marsangà piantata e pronta all’uso e un rotolo di fil di ferro dolce per rappezzare. Un banco da lavoro in legno con morsa e raspa, con la càora appesa ai travi del tetto per i bloccaggi complessi, una scatola con dentro il treppiede di ghisa e qualche forma di legno per scarpe, un martello a testa larga, subie, vasetto con grasso di porco, un blocco di cera vergine, anche un paio di pinze piccole, per tirare aghi e aghi grossi da spago e da corregge. La carriola, la pila delle legne seche e i tronchetti dell’anno a seccare; in fianco il castello di legno su cui era imperniata e immancabile la verde ruvida ruota di arenaria con propria manovella in fianco e un barattolo mezzo arrugginito sopra, per metterci l’acqua che fa cantare la mola mentre affila le lame.

La carriola.

Ancora due secchie larghe con fratón, frataz, cazzuola, piombo con filo, vecchi giornali multiuso (da cappello, da isolamento, da cesso, tutto tranne che da lettura). Inoltre un mastello di legno per il bucato, o da bagno parziale degli adulti o integrale per bambini (d’estate, riempito d’acqua al mattino e posto al sole anticipava i pannelli solari3). Due secchi di lamiera, la tola da lavar, una da reʃentar con impugnature da asporto, bruschini a mano, saponi con profumo di sapone. Scope di ramaglia, scope di saggina, scope e scopini di canna palustre; a sé stante: falce, falcini, falciona, pianta e coder con pria, pronta all’uso.

Tanto in disordine appariva il portico quanto in ordine la càneva a fianco, fatta severa da tre quattro scalini che scendevano fino alla fresca massicciata di sabbia e sassi. Di pietra, e spesse, anche le pareti; luce solo filtrante da un controsoffitto di assi che serviva anche come deposito di cianfrusaglie e attrezzi di raro uso, tra cui un paio di muse da fieno non utilizzate da chissà quanto.

Sospese su travature di castagno, a una quarantina di centimetri da terra, le botti di diversa grandezza, i caretei e poi la tina grande e i tinaz da travaʃo; impilate, in un angolo, damigiane di diversa dimensione e stato e una fila di bottiglioni col tappo ricavato da tutoli di pannocchia; idem per un paio di zucche vuote seccate adibite a contenitori da pinpinèla4, una imbragata e pronta; su per il muro le impirie, la lora, una serie de cànole e spinèi da botte. 

Appoggiate sui travi di fianco alle botti, alcune scodelle cerchiate di rosso sempre pronte per gli assaggi, ormai insensibili alla presenza dei moscerini. Nell’angolo anteriore scavato più in basso una specie di pozzo secco, come un gabbione foderato di rete fine – moscarola gigante e supplizio visivo dei topi – con sovrastante baldacchino di stanghe mobili sospese a fili di ferro a formare supporti incrociati dove appendere dall’alto in basso sopresse, pancette, socòi, lenguai, saladi, storte, muʃet e lugàneghe – più grande di idea che di contenuto – dato che la paura dei ladri veri, quelli umani, consigliava a mio nonno di tenere metà tesoro sempre in casa, anche se in luogo più sacrificato5.

Relegata nell’angolo, l’aʃeèra di ciliegio per evitare possibili contatti tra vino e aceto, attenzione inutile per clinto, bacò e mericana, che di per sé, col caldo della stagione nuova pensavano a virare verso un acidulo naturale (tanto per essere gentili). Poco male per valutatori assoluti di bianco o negro, di bon o trist, soddisfatti anche di acquatello e vin pìzol quando si beveva più per fame, per tristezza o compagnia che per delizia del palato.Ovunque, potevano essere ovunque, ma ben visibili, la pompa del verderame e il follo par solferar le viti, mentre non si dovevano vedere la caldaietta e le serpentine di rame che, messe al posto della caldaia da lisia, con l’ausilio di una botte d’acqua per il raffreddamento, servivano a fare grappa di contrabbando in giorni invernali a singhiozzo. Quelli non li ho mai visti in funzione, da piccolo, mentre l’uva nel tino l’ho pestata coi piedi e conosco benissimo la sensazione vellutata delle bucce che scivolano tra collo e pianta mentre il piede pigia. Conosco nell’intimo persino lo stridore del legno su legno delle spine che annunciano l’arrivo del getto ‘di-vino’ dalla botte.

  1. Di mettere una doccia, neanche parlarne, di una vasca da bagno, tantomeno: era già tanto aver messo un lavandino. ↩︎
  2. Uva che matura a luglio, da cui il nome. ↩︎
  3. Nel repertorio belumattiano diventerà il ‘mastello solare’ all’interno del monologo sulla ‘lavatrice del 2000’. ↩︎
  4. Vin piccolo, acquatello, vinello o vin falso fatto mettendo pura acqua sulle vinacce esauste per levar loro ogni residua sostanza. Ne derivava una bevanda acidula di colore tenue, buona comunque per levare la sete, anzi ideale per questo. ↩︎
  5. Appeso al castel, sotto il letto (forse per questo mi sembrava così alto!) ↩︎

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