Non si cancellano
di Luigi Del Favero
È il mattino del 24 luglio e sto per iniziare la Messa. Senza sforzo alcuno si affaccia un pensiero: «Oggi è l’anniversario del giovanissimo Siro vittima di un incidente stradale; lo ricorderò». Poi mi soffermo e mi accorgo che, ad occhi chiusi, potrei dettare le intenzioni delle Messe delle prossime settimane. Rivedo anziani che ci hanno lasciato serenamente tra fine luglio e inizio agosto; ritrovo ancora episodi dolorosi che hanno segnato la vita del paese: il 2 agosto la morte di Pietro nella galleria del Falzarego, il 12 agosto la tragica scomparsa del giovane Gino. Non è certamente la prima volta che mi accorgo di quanto siano indelebili dati, nomi, volti, fatti della "mia" parrocchia, quella nella quale ho vissuto quasi venticinque anni. E non si tratta solo di anniversari di morte, ma anche di ricordi lieti. Ho pensato che questa memoria si sarebbe affievolita con gli anni; in alcuni momenti ho perfino desiderato un qualche distacco per non riaccendere ogni volta la nostalgia. Ho parlato pure ad altri di quanto può far bene il distacco. Niente da fare! Tutto è inciso su un nastro indelebile. Credo sia quello del cuore che ha qualche alleato nel nostro misterioso cervello così straordinario nel selezionare il materiale da conservare e quello da scartare. Neppure noi ci rendiamo conto di quanto ci succede e quando ci sono dimenticanze strane o ripetizioni ostinate gli altri percepiscono le stranezze prima e meglio di noi.
Ritengo che l’attaccamento di cui sto parlando e che riguarda la vita di un parroco, lo possa capire solo un altro parroco. Chi guarda dall’esterno facilmente vede esagerazioni o diagnostica compensazioni.
Il legame tra parroco e comunità è unico e anche quando le leggi della Chiesa, la saggezza pastorale, le esigenze della realtà e la salute psicologica comandano o suggeriscono un ricambio, che comporta un allontanamento, il legame non si spezza. E non importa se i vecchi parrocchiani cominceranno a confondermi, dimenticando il mio nome, perdendo il conto degli anni trascorsi insieme. Capita a tutti, dopo un certo tempo, di essere descritti solo con qualche tratto: «Era piccolo o pallido o svelto, buono o cattivo»...
Le immancabili fatiche, sofferenze, stanchezze, crisi se ne vanno sullo sfondo; talvolta mi sfuggono i particolari della chiesa o della casa ed infatti ritornandovi alcune volte mi sono sentito un po’ estraneo. In primo piano rimangono i volti, le persone e, nel mio caso, le montagne che vedevo da lassù. Per la verità anche le voci delle campane: di Laste, di Larzonei, di Andraz e quelle grandi di Pieve che arrivavano solo quando l’aria tirava da Nord.
Come costante c’è il rifiuto di sentir parlare male della mia parrocchia e dei suoi abitanti. Proprio non lo accetto. Sono addirittura convinto che se un prete vede nei propri parrocchiani soprattutto i lati negativi, farebbe meglio ad andarsene. Anche un insegnante dalla classe o un sindaco dal paese!
Dunque sono un inguaribile ingenuo? Arrivo a nascondermi l’evidenza nella quale ci sono certamente gli aspetti oscuri di una comunità?
Ponendomi questi interrogativi in una afosa notte insonne di questo periodo così duro, ho preso in mano il testo di un antico scrittore, che già nel nome – Isacco di Ninive – annuncia autorevolezza e mistero.
Vi ho letto di un discepolo che chiede al maestro spirituale: «Se uno è giunto alla purezza del cuore, quale ne è l’indizio? Quando saprà che il suo cuore è arrivato alla purezza?». La risposta suona così: «Colui che vede belli tutti gli uomini e nessuno gli sembra impuro o contaminato, questi si tiene davvero nella purezza. Perché gli occhi puri non vedono il male».
Ne ho tratto motivo di incoraggiamento, non però così forte da esimermi dal passo ulteriore nel quale ho avvertito il rimorso per non aver risparmiato tanti rimproveri.
Il vecchio Isacco mi ha aiutato ancora nella pagina in cui mette in guardia «dal cadere nella passione di coloro che sono ammalati del desiderio di correggere gli altri e che da se stessi vogliono essere i censori e i correttori di tutte le infermità degli uomini». Sant’Isacco, con il coraggio che hanno i monaci, afferma che è meglio peccare di lussuria!
La sua lezione si può riassumere nell’insegnamento che non si dà zelo infuocato contro chicchessia nella vita cristiana, neppure per difendere la verità; anzi colui che ha gustato la verità non litiga neppure per la verità.
Il suo detto più celebre, spesso citato, che «colui che vede i propri peccati è più grande di colui che resuscita i morti» si iscrive in questa visione che conosce certamente il male e ne ha viva coscienza, ma non lo va a cercare nei propri fratelli.
Qualcuno che mi potrà dire che con pensieri simili non si attenua certamente il disagio per la calura di luglio e non si trova sonno. Forse ha ragione, ma i pensieri sono venuti su spontaneamente al seguito di una buona e sana nostalgia nata al mattino in sacrestia.
Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.
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