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Come cent’anni fa

di Luigi Del Favero

Era presente nei discorsi dei vecchi sempre con un misto di fastidio e di delusione. Li sentivo parlare dell’uccello della pioggia come di un misterioso volatile che sta vicino alla case nei giorni di maltempo prolungato, con un insistente pigolio che non può essere neppure lontanamente avvicinato a un canto o a un cinguettio. Fino a quando non smette, non si può sperare in un ristabilimento del tempo: la sua voce segna infallibilmente pioggia. Poi sono cresciuto ed ho capito meglio i vecchi, avvicinandomi alla loro condizione. Ho fatto anch’io attenzione all’uccello della pioggia, l’ho ascoltato, ho condiviso il fastidio di cui avevo sentito dire arrivando a innervosirmi per quel pigolio che non vuole smettere; ho dato ragione a quanto affermavano circa la previsione infallibile: continuerà a piovere! Di mio recentemente ho messo il desiderio di saperne qualcosa di più, di vederlo, di conoscerne il nome scientifico, la famiglia di appartenenza e di risolvere l’enigma del perché viene da noi, tra le case, solo quando c’è brutto tempo. Domenica scorsa ho risolto ogni interrogativo. Il calendario indicava luglio mentre il cielo, la pioggia e la temperatura dicevano autunno. Il chiostro del seminario in queste occasioni diventa un buon rifugio e offre possibilità di camminare, silenzio assoluto e una bellezza che non è quella delle montagne e dei boschi, ma parla ugualmente, con voce che viene da secoli ormai lontani, di armonia, di pace, di arte. Tre le colonne del chiostro si sviluppa una vite, essa pure antica, dal ricco fogliame. Proprio tra le foglie si nascondeva l’uccello della pioggia; anzi ce n’erano più esemplari che parevano in dialogo tra loro. Per questa ragione il noioso pigolio non aveva sosta. Ho battuto le mani, ma non sono scappati; ho provato a imitarli, ma non si sono lasciati ingannare dal mio goffo richiamo. Finalmente un corvo si è appollaiato sulla grondaia, gracchiando forte come fosse adirato. I misteriosi volatili sono usciti allo scoperto, si sono alzati in volo, fuggendo verso l’alto. Li ho visti chiaramente: sono i nostri familiari e umili passeri. Nessun mistero dunque, nessun esemplare che viene a cercare riparo tra le case. Proprio i passeri che stanno sempre con noi, anche nei mesi invernali, condividono i nostri lamenti ed esprimono con voce triste il fastidio per la pioggia che non dà tregua.
Non sembri irriverente l’accostamento! Oggi ho paragonato l’appello del Papa per la pace alla voce dei passeri. Francesco parlava accoratamente, appariva abbattuto e non nascondeva la forte preoccupazione. Il NO alla violenza era tuttavia forte, deciso, scandito.
Ma sono appelli che il mondo (anche noi?) trattiamo come il pigolio dei passeri. «Si sa, il Papa deve parlare di pace e deve essere contro la guerra. Ma cosa ne sa lui? Quale efficacia possono avere le sue parole e i suoi gesti?»
Proprio come accadeva cent’anni fa in queste settimane. Le nazioni correvano verso la guerra e anche i popoli la volevano. L’opinione pubblica era stata sollecitata e ognuno si era convinto delle proprie ragioni dal momento che nessuno dichiara di voler fare una guerra ingiusta. Il pianto di Pio X, che morì il 20 agosto di quel 1914, non fu sentito. Più difficile chiudere gli orecchi e far finta di non udire le dure condanne di papa Benedetto XV che definiva la guerra «inutile strage», irriso da politici e generali che si irritavano per il «vecchio del Vaticano».
Perché l’umanità non vuole capire che la guerra è sempre un’avventura senza ritorno? Perché si continua a ripetere, a ogni tornante, che è necessario dare una lezione ora agli irredentisti, ora ai terroristi, ora ai separatisti? Perché ogni generazione vuol ripetere la fallimentare esperienza di stabilire la giustizia con le armi e di cercare la vittoria sul nemico? Perché il nazionalismo è una malattia endemica sempre pronta a riesplodere, rivestendosi di patriottismo?
In questi giorni ho appeso di nuovo nella mia stanza le famose immagini di papa Giovanni Paolo II, vecchio e malato, che grida il suo profetico NO alla guerra del Golfo. Sono quattro fotogrammi che riprendono il Papa che parla più con le mani e il volto che con la voce affaticata: «Ho il dovere di dire a questi giovani...».
Alla severa scuola dei Papi noi cristiani almeno una cosa abbiamo imparato: non nominiamo più Dio affinché benedica le armi. Un secolo fa non era così e certi discorsi patriottici di allora ci riempiono di vergogna. Nei giorni scorsi, mentre si incendiavano di nuovo la tormentata terra di Palestina e l’Ucraina, nella liturgia era proposta questa pagina del profeta Isaia: «Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza perché sono intelligente; ho rimosso i confini dei popoli. La mia, come in un nido, ha scovato la ricchezza dei popoli. Come si raccolgono le uova abbandonate, così ho raccolto tutta la terra: non vi fu battito d’ala, nessuno apriva il becco o pigolava». Sono le dichiarazioni compiaciute del prepotente di turno, le sicurezze del forte che può colpire con sicurezza.
Ma Dio non può tollerare tale superbia: «Può forse vantarsi la scure con chi taglia per suo mezzo o la sega insuperbirsi contro chi la maneggia? Perciò il Signore, Dio degli eserciti, manderà una peste contro le sue più valide milizie». Mentre ascoltavo queste parole, ricche di immagini delicate, sentivo un brivido pensando che esiste anche un giudizio delle Nazioni e che si tratta di un giudizio inesorabile e severo.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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