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Come fare il bene

di Luigi Del Favero

Ho dato parecchie delusioni al compagno che mi ha insegnato ad andare in montagna. Nei primi tempi a me bastava arrivare in vetta; lui però voleva che curassi anche lo stile. La prima arrampicata l’avevo compiuta con una guida, un uomo veramente esperto e paziente. Giunti in cima, si era girato per seguirmi negli ultimi metri, mi aveva aiutato e al posto di una lode o di un complimento che a me pareva meritato, aveva esclamato: «Ti sei tirato su come una rana; roba da vergognarsi!». Niente ancora in confronto all’esclamazione che avrei sentito un’altra volta da un amico: «Sembri un pecora; è più facile tirarsi dietro un cane che te». La durezza del linguaggio in montagna è tollerata, le sgridate e le svergognate, fino al litigio, sono necessarie per obbligare a reagire alla paura e allo scoraggiamento; destano l’orgoglio di farcela e zittiscono i lamenti. Poi una volta scesi a valle e rientrati a casa non se ne parla più perché c’è una specie di legge non scritta che impone un silenzio complice.
Credo, con il tempo, di aver acquistato qualche punto in quanto a stile specialmente quando ho imparato a non lavorare solo con le braccia e le mani, ma a valorizzare le gambe e i piedi, a fare il conto equilibrato del peso, a collocare le pause al posto giusto. Ne esce un’armonia che alterna tempi forti e pause, proprio come si fa nella musica. Alla fine alla soddisfazione per essere arrivato in cima si unisce il piacere di esservi arrivato bene, senza aver sprecato tutte le forze.
Ho ripensato molto a queste lontane esperienze nell’ultima settimana. Il ricordo è stato svegliato da una affermazione del Patriarca di Venezia inserita nella predica del "Redentore", la grande festa di metà luglio: «Dobbiamo tutti tornare ad interrogarci sul modo in cui facciamo le cose: raggiungere un fine non significa ancora nulla. Ci si deve chiedere, infatti, in che modo, a quali condizioni, con quale grado di giustizia l’ho conseguito. La valutazione su un obiettivo raggiunto dipende dal modo in cui ho conseguito quel fine che mi ero proposto. Sorge così la questione etica che ci ricorda che è dal cuore dell’uomo che tutto ha inizio».
Qualcuno userebbe la nota formula breve: «Il fine non giustifica i mezzi», la cui applicazione riguardava prevalentemente la politica.
Ha fatto bene il Patriarca a scegliere la strada più lunga che coinvolge tutti e interroga sul comportamento in ogni ambito, dalla politica alla vita personale. Con quanta disinvoltura l’aver agito a fin di bene e l’aver effettivamente raggiunto una realizzazione assolvono da tante responsabilità e dispensano da troppe domande sul percorso attraverso il quale si è passati per arrivare alla meta. Qui sorge la questione etica.
I nostri grandi maestri erano molto sensibili a tale questione. Tommaso d’Aquino rimane insuperabile nella sua finissima analisi dell’atto umano: ne aveva studiato la sorgente, descritto il percorso, indicato le tappe, fissato il contributo di ragione, volontà, intenzione e sentimento o passione, esposto le condizioni affinché si potesse chiamarlo un atto veramente umano e retto. Purtroppo i suoi testi restavano chiusi e circolavano riassunti scolastici, freddi e indigesti. Li abbiamo buttati via, senza sostituirli con nient’altro di valido. Ignazio di Loyola sta al livello di San Tommaso per il preciso e profondo studio del discernimento, corredato da alcune regole molto sagge, oggi riproposte da papa Francesco e diffuse tramite gli esercizi spirituali ignaziani. Anche di questo ci eravamo infastiditi. Così ci siamo ritrovati assai pressappochisti, generici, pronti a praticare facili sconti sulle nostre azioni. La sensazione di agire a fin di bene ci assolve a buon prezzo da bugie, sotterfugi, piccole e grandi manovre disinvolte in fatto di denaro, sgambetti nella carriera, maldicenze, compromessi.
«Ci si deve chiedere con quale grado di giustizia ho conseguito il fine».
È la grande regola opportunamente ricordata dal patriarca Moraglia.
Pensava a Venezia, alla politica e agli affari veneziani? Pare evidente, conoscendo la cronaca giudiziaria delle ultime settimane.
Parlava anche alla sua Chiesa chiamata ad un esame di coscienza? L’aver scelto la predica ai propri fedeli, in una grande festività, lo lascia facilmente pensare.
Io l’ho applicata a me stesso e l’ho sentita vera e necessaria.
Ora traduco così: «Il bene bisogna farlo bene, altrimenti può far male».
Vale per l’elemosina che deve essere delicata, rispettosa, fatta guardando negli occhi la persona; altrimenti è un’offesa.
Bisogna applicarlo all’accoglienza dei profughi che non stiamo trattando male quando li incontriamo a tu per tu; però quanta disinformazione, quanta rabbia, quanta ingiustizia quando trattiamo il problema: sono innocenti? si può giungere a fare peccato?
È urgente portare la regola del Patriarca nel mondo della comunicazione dove in nome della verità si distrugge l’onore e anche la vita delle persone.
La Chiesa dovrebbe essere il luogo dove la regola è applicata con rigore e trasparenza, mettendo in conto che c’è qualcosa da cambiare in fretta.
Gesù ci aveva preceduto con la solita semplicità essenziale: «Il vostro parlare sia sì, quando è sì e no, quando è no. Il di più viene dal Maligno».

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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