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Il fulmine

di Luigi Del Favero

Il nonno mi aveva insegnato i confini del prato. Ogni anno voleva che partecipassi con lui a quella specie di rito che consisteva nel cercare i quattro sassi ben piantati nel terreno che portavano incisa una croce: li ripuliva dall’erba e dal muschio per renderli visibili. Mi aveva indicato i larici che lui stesso aveva piantato e di cui seguiva orgogliosamente la crescita. Avevo imparato che all’ombra di alcuni grandi faggi, dove il terreno declinava verso il torrente e diventava insidioso, non mancavano mai i funghi. Negli ultimi tempi il nonno aveva rinunciato a falciare l’erba nella parte più ripida, limitandosi al piano dove cresceva un’erba magra poco adatta al foraggio per le mucche. La si metteva da parte per le capre.
Non poteva immaginare che in pochi anni il suo prato sarebbe rimasto incolto, il bosco avrebbe disordinatamente invaso tutto, i sentieri sarebbero diventati invisibili, dei sassi di confine si sarebbe persa la memoria. Dopo sessant’anni li saprei ancora trovare, ma soprattutto riconosco il posto dei funghi. Ho voluto andarvi nei giorni scorsi con tanta attenzione per il terreno intriso di acqua.
Arrivato in prossimità del prato, meglio sarebbe chiamarlo bosco, attraverso le piante, ho intravisto qualcosa di strano: sul terreno c’era molta legna sparsa che mi ha fatto pensare all’iniziativa di qualcuno che ha scelto di approfittare di quanto la neve ha abbattuto durante l’inverno. Ma non era così. Quella legna sparsa non era opera di boscaioli, ma di un fulmine che ha atterrato un grande abete riducendolo in mille pezzi. Nel racconto che ne ho fatto ho usato l’immagine degli stuzzicadenti. La cima con i rami ancora attaccati è finita tra i faggi; il resto è ridotto in pezzi o schegge di varia dimensione. Quasi tutte, bianchissime, sono conficcate nel terreno. Guardando meglio ho visto che altri due abeti vicini sono stati colpiti. Pur restando in piedi, sono squarciati e dai tronchi si sono staccate grandi ’s–ciolpe’: forse si potrebbe tradurre con ’schianti’ questo efficace termine della parlata ladina. La medesima parlata consente un discorso breve per descrivere il tutto dicendo che il fulmine ha ridotto l’abete in ’s–centene’.
Ho voluto prendere una di quelle schegge per portarla a casa e documentare quanto avevo visto. Quella che avevo scelto tra decine e decine era conficcata nel terreno e non sono stato capace neppure di smuoverla. Allora ho ripiegato su una più piccola che ho strappato con fatica. Me ne sono andato senza funghi e molto perplesso, pensando alla forza terribile del fulmine.
Mi è tornata alla mente la supplica ripetuta nelle preghiere di un tempo: «A fulgure et tempestate libera nos, Domine». Sapevano cosa chiedevano. Ho ripetuto fra me le parole di un salmo che descrive la potenza del Signore con gli occhi pieni di stupore e di paura per la forza del fulmine: «Il Signore tuona con potenza. Il tuono del Signore schianta i cedri, fa balzare come un vitello il Libano; il tuono fa partorire le cerve, scuote la steppa e spoglia le foreste». (Sal 28).
Arrivato all’automobile ho delicatamente fatto entrare il resto recuperato, ricco di resina e ne ho aspirato il profumo che ha subito invaso l’abitacolo: per me è delizioso. La musica però è cambiata subito. Alla radio trasmettevano le parole del Papa di ritorno dalla Corea con quell’annuncio, pacato nel tono e terribile nella sostanza: «È iniziata la terza guerra mondiale, solo che la si combatte a pezzetti, per capitoli, in tante parti del mondo».
Dunque un altro fulmine è caduto e di ben altra portata. Proprio come è successo cent’anni fa con lo scoppio della grande guerra, nell’estate 1914.
E come allora si pensa che sia stata colpita solo una pianta, o forse due o tre al massimo. Ieri si trattava della Serbia; oggi del Medio Oriente e dell’Ucraina. Però c’è la storia delle schegge che vengono scagliate lontano con forza inaudita, in modo imprevedibile, conficcandosi nel terreno, con la capacità di accendere il fuoco dove mai si sarebbe pensato. E come cent’anni fa le cose non ricevono l’attenzione che meritano.
Meglio interessarsi dei milioni di euro che vale Balotelli nell’ambito del calcio–mercato o appassionarsi alla vicenda degli embrioni scambiati in pratiche di fecondazione assistita, senza accorgersi che si tratta di una pratica disumana, oppure ridere per le secchiate di acqua gelida con le quali si scherza su una grave malattia con la scusa di finanziare la ricerca.
Ma anche gli argomenti più seri che girano invariabilmente attorno all’economia, che si è ripiegata su se stessa, trasmettendoci un’angoscia talvolta esagerata, possono diventare una distrazione se ci fanno dimenticare il mondo nel quale viviamo.
Potrebbe esserci presto un risveglio molto amaro per tutti. Non ci piace il moralismo e non vogliamo risuscitarlo in questo momento. Alla serietà però non possiamo rinunciare.
Il credente pregherà con rinnovato fervore.
Il non credente penserà, cercherà di capire, vorrà informazioni vere per farsi idee giuste.
I politici raddoppieranno la responsabilità e ne daranno prova con un’unità che molti reclamano.
L’uomo ‐ che siamo tutti, prima delle distinzioni ‐ si aprirà alla solidarietà, all’accoglienza dei profughi, all’aiuto per le vittime.
Aspiro ancora il profumo fresco di resina e sento che la lezione del fulmine è molto severa.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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