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Congedarsi con un canto

di Luigi Del Favero

Nella Bibbia c’è questa preghiera autorizzata da Dio stesso: «Tu conti i miei passi e raccogli le mie lacrime nel tuo otre».
Quando un parroco lascia la comunità con la quale ha vissuto per tanti anni, depone in quell’otre molte lacrime. È una di quelle cose che può capire solo un altro prete; altri riescono a comprendere, compatire e confortare, rimanendo però al di fuori del legame che si costruisce tra parroco e parrocchia. Per questo è bene non parlarne troppo e non esporre sentimenti intimi a un’eccessiva esibizione, mettendo realisticamente nel conto una dose di estraneità che emerge talvolta nelle parole di chi si congratula per la eventuale promozione o descrive i vantaggi del meritato riposo.
Lasciando Castion dopo 32 anni, don Ottorino ha lasciato cadere le presumibili lacrime nell’otre di Dio e le ha tenute nascoste. Al posto del rimpianto o anche solo dei ricordi ha messo un canto. Non saprei definire in altro modo quella sorta di inno che ha spontaneamente composto per il momento del congedo.
Un inno al sacerdozio innanzitutto, con uno svolgimento sul tema dell’amore. Ha confessato che il prete è un uomo molto amato da Dio il quale però arriva al prete attraverso i fratelli.
«Nessun uomo può vivere senza amore!». Sono passati trentacinque anni da quando papa Woytjla collocò tale affermazione al centro della sua prima enciclica. Allora non potevamo sapere in quanti modi avrebbe dimostrato la verità di questa parola in innumerevoli gesti, viaggi, discorsi e sofferenze. Era anche l’annuncio di una svolta nella considerazione dell’amore umano: ce ne siamo ricordati in questi giorni di inizio del Sinodo sulla famiglia.
Don Ottorino, senza citazioni dotte, ha dato testimonianza di tale verità scritta nella sua vita, trasmettendo a tutti i presenti, insieme ad una profonda emozione, la certezza di ascoltare un uomo intimamente felice. Avrebbe potuto dire che la sua vita è stata realizzata in pienezza.
Gli ero seduto accanto e via via che egli parlava, accompagnavo il suo inno con una preghiera segreta: «Signore, questa è una buona semina. Porta questo seme nel cuore di qualche giovane presente, di quelli che sono qui con gli occhi lucidi. Tu sai chi puoi scegliere come terreno per ricevere questo seme e coltivare il desiderio di fare altrettanto. Oggi potresti fare innamorare qualcuno proprio del sacerdozio».
Avrei anche voluto che fossimo presenti quanti abbiamo avuto don Ottorino come educatore in Seminario. Avremmo constatato di persona dai gesti e dalle parole del suo congedo che quanto ci aveva insegnato era autentico e vero.
Poi mi sono distratto inseguendo un pensiero che occupa la mia mente da tempo. Mi sono intestardito a cercare la traduzione più esatta della famosa frase di Dostoevski: «La bellezza salverà il mondo». Ma non imparerò mai la lingua russa e non credo che la questione stia nella ricerca di termini fedeli all’intenzione dell’autore. Tutto sta invece orientando a cercare "la bellezza che salva" nelle relazioni umane. Sono le relazioni buone, belle, fedeli, sincere che ci salvano in ogni tappa della nostra vita.
La relazione di una grande parrocchia che salutava il proprio pastore possedeva quella bellezza. Occorre aggiungere che c’era anche una cornice esterna che ha dato il proprio contributo. A detta di molti infatti la domenica 28 settembre è stata una giornata luminosa, calda: certamente la più bella di tutta la stagione.
Scrivo questi ricordi incapaci di trasmettere tanti sentimenti a distanza di una settimana.
Oggi ricorrono i 90 di vita della Radio. Il telegiornale ha dedicato un ampio servizio a questo compleanno e l’ha introdotto, senza annunci, facendo riascoltare il "discorso della luna" di papa Giovanni. Era l’11 ottobre 1962. Evidentemente il regista frugando in un materiale immenso nel quale sono confluite le notizie di un secolo densissimo, ha trovato nelle indimenticabili parole del vecchio Papa che a notte inoltrata parlava ’da fratello’ alla folla giunta in piazza San Pietro nel giorno di inizio del Concilio, qualcosa di universalmente riconoscibile e da tutti sentito come "bello". Eppure si trattava di parole improvvisate, perfino sgrammaticate, che non annunciavano nessuna novità. Ma contenevano la buona notizia che siamo amati e ognuno l’ha sentita rivolta a se stesso.
Che sia questo il segreto della nuova evangelizzazione?
Si trova in questo campo il tesoro nascosto del Vangelo della famiglia che bisogna urgentemente dissotterrare e ripulire affinché sia visibile?
Nel canto di un prete che confessa di essere stato amato e di sentirsi ancora amato, senza neppure bisogno di dire che anche lui vuole bene, c’è un indizio. La strada da percorrere è aperta e chiaramente indicata.
Ma sono cose che si dicono così raramente e con tanta fatica che si finisce con il rovinarle.
Ma forse alcuni momenti ne lasciano intravedere la necessità.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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