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Contro il terrorismo più Stato e più dialogo

«Lo Stato dovrebbe difendere i diritti dei suoi cittadini, e tutto diventa più difficile quando non si riesce più a cogliere la differenza tra Stato e non–Stato e nessuno può più contare sul fatto che lo Stato lo proteggerà dal non–Stato».
Non si è sentita, tra le mille voci mediatiche di questi giorni dopo l’attentato a Parigi alla redazione di Charlie Hebdo, quella di Malala Yousafzai, pakistana, premio nobel per la pace 2014. Ne facciamo ora sentire la voce – la citazione qui sopra è sua – perché la sua autobiografia, «Io sono Malala», fa emergere non solo la storia di una ragazza musulmana nel mirino dei talebani (le fu sparato in testa a Mingora, capitale dello Swat, il 9 ottobre 2012) per la sua battaglia affinché le ragazze potessero studiare, ma anche perché le dinamiche che hanno portato al suo attentato sono le stesse degli attentati di questi giorni: la volontà di alcuni di mettere a tacere con la violenza chi viene percepito come nemico e l’assenza di uno Stato, di una comunità capace di proteggere e di sostenere i suoi membri e di garantire a tutti la possibilità di una buona qualità di vita.
Nelle pagine dell’autobiografia di Malala si legge come i talebani nello Swat siano saliti al potere prendendo il posto di quei servizi che l’autorità di Islamabad non era in grado di garantire. I montanari dello Swat, capaci come tutti di guardare la televisione e internet, sapevano che migliori stili di vita sono disponibili per altri cittadini di altre città pakistane e in tutto il mondo e il desiderio di migliorare la loro condizione di vita li gettò nelle braccia dei talebani.
Ora, che si tratti delle periferie di Mosul, di Tripoli, di Beirut o di Parigi (dove, lo si è letto in questi giorni, i ragazzi maghrebini e non solo non gridavano «Je suis Charlie», ma «Je suis Kouachi»), è anche l’assenza dello Stato (e quindi della possibilità di una vita dignitosa) uno dei problemi che sta all’origine del fondamentalismo.
Uno Stato capace di dare ai suoi cittadini ciò di cui hanno bisogno e di fornire a tutti le stesse opportunità è una garanzia importante contro il terrorismo, d’Europa e di oltre Mediterraneo.
Sembra davvero un cortocircuito pensare che l’Islam in quanto tale, la religione islamica, non sia capace di perseguire la pace e che i terroristi non siano altro che il frutto maturo di una pianta velenosa.
Molti commentatori occidentali lo hanno dimenticato in questi giorni, additando nell’Islam il principale responsabile degli attentati a Parigi. Invece, insieme e oltre alla responsabilità personale di chi decide e compie l’atto di terrorismo, di chi lo promuove e favorisce, bisogna tenere ben presente anche la responsabilità dello Stato. O meglio, la responsabilità della mancanza di un vero Stato. Mancanza che accomuna l’Iraq alla Siria, la Libia all’Afghanistan.
Che fare ora? Bisogna darsi la pazienza di distinguere: non solo tra l’Islam moderato e l’Islam fondamentalista, ma anche distinguere tra religione e politica, distinguere tra motivazioni religiose e motivazioni sociali...
Distinguere però non basta. E qui parliamo da credenti: il Signore Gesù ha creato la pace «tra i lontani e i vicini», noi credenti non possiamo fare altro se non costruire ponti: avvicinare l’Islam moderato, creare relazioni, continuare fino alla fine a dialogare e a cercare il dialogo, con chiunque sia disposto ad accoglierlo; accettando, se necessario, anche il martirio del dialogo (quella prospettiva del martirio che non è mica scomparsa dall’orizzonte della Chiesa), come i monaci di Tibhirine o come Charles de Foucauld.
E come cittadini? Vogliamo garantire gli stessi diritti a tutti, far sì che non ci siano cittadini di serie A e di serie B.

Leggi il "fondo" della settimana scorsa.

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