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Sono come noi, fratelli nostri

Sono forse 900 i migranti inghiottiti dalle acque del Mediterraneo dopo il più terribile naufragio degli ultimi tempi, tra cui 200 donne e 50 bambini. Sono sopravvissuti solo in 28 perché la maggior parte – i più deboli e quelli che pagavano meno – erano stipati nella stiva, con i portelloni bloccati, accucciati uno accanto all’altro senza potersi muovere. A loro è toccata la sorte peggiore. Poche ore dopo, davanti alle coste di Rodi, in Grecia, un altro naufragio con 200 a bordo e, nel momento in cui scriviamo, solo 57 superstiti. Numeri che fanno gridare all’orrore, ma che non danno la misura concreta della drammaticità delle storie che ci sono dietro. Persone come noi che cercano, migrando o fuggendo da guerre e persecuzioni, una vita migliore, degna e libera.
«A quante vittime vogliomo arrivare per cominciare a muoverci seriamente, con un progetto a lungo termine? Questa tragedia è una vergogna per l’Unione europea e la comunità internazionale». È il grido di dolore e di rabbia di Tareke Brhane, eritreo, presidente del Comitato 3 ottobre, che dopo i 366 morti del naufragio a Lampedusa nel 2013 fa attività di sensibilizzazione nelle scuole e chiede al governo e all’Ue di riconoscere la Giornata della memoria in onore delle vittime del mare. «Perché siamo diventati così egoisti? Dov’è l’umanità? Qual è la differenza tra me e voi? Solo il Paese in cui sono nato. Non capite la ragione che ci spinge ad uscire?», si chiede Brhane, che come tante altre organizzazioni critica l’operazione Triton e chiede canali umanitari nei Paesi di transito, concedendo ai profughi un permesso per entrare nei Paesi europei, a seconda delle quote: «Date un’alternativa concreta a queste persone, una via e un posto sicuro. La gente continuerà ad imbarcarsi e a rischiare la vita perché è disperata. Bisogna proteggere le persone, non i confini! L’uomo ha più valore dei soldi».
Cinque anni di viaggio tra carcere, deserto e mare. La sua fuga disperata ha avuto origine da un governo dittatoriale che in Eritrea costringe tutti i giovani a fare il servizio militare – o in alternativa il carcere – a vita. «Mia madre sapeva che non ci saremmo mai più incontrati, ma mi esortava con un sorriso, dicendo: "Vai, ce la fai" – racconta Tareke –. Ho impiegato cinque anni per arrivare in Italia, trascorsi tra un carcere e un altro. Avevo solo l’1% di possibilità di riuscire, ma non mollavo». Tareke ricorda le terribili condizioni del viaggio nel deserto: «Sulla jeep eravamo 34 persone, uno legato all’altro. C’erano montagne di sabbia, ci facevano bere acqua con la benzina. Le donne erano tutte stuprate davanti ai nostri occhi. Il mio desiderio era: "Dio se devo morire fammi morire in mare, perché è più veloce". Ho tentato due volte la traversata, due volte sono stato respinto dai maltesi. Arrivato in Italia ho avuto molte difficoltà».
Riferendosi alle centinaia di migranti inghiottiti dal mare papa Francesco domenica scorsa ha rivolto un accorato appello «affinché la comunità internazionale agisca con decisione e prontezza, onde evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi. Sono uomini e donne come noi, fratelli nostri che cercano una vita migliore, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre; cercano una vita migliore. Cercavano la felicità...».
Un invito quindi alle autorità a muoversi e a farlo in modo tempestivo e convinto e un invito a tutte le persone a sentirsi solidali con i migranti, «uomini e donne come noi».

Leggi il "fondo" della settimana scorsa.

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