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Dove va il nostro legname?

di Luigi Del Favero

In un giorno di traffico sostenuto ‐ eravamo già vicini alla Pasqua ‐ ho compiuto in auto il tragitto da Ponte nelle Alpi e Cimagogna, alle porte di Auronzo, al seguito di due autotreni carichi di legname.
Fretta, impazienza, nervosismo, imprudenze? Neppure una traccia! Non solo perché il sorpasso si è rivelato impossibile, ma soprattutto perché la mia attenzione è rimasta concentrata per tutto il tempo, come attirata proprio dai due autotreni e dal loro carico.
Non è certamente insolito il trasporto di grandi quantitativi di legname sulle strade della nostra provincia. Ho trovato subito strana la direzione: i due pesanti mezzi procedevano da Sud verso Nord e avevano ambedue la targa austriaca. Erano dunque diretti in Austria.
Da dove provenivano quei tronchi? Forse dal Cansiglio o dall’Agordino oppure dal Nevegal? Erano il risultato di un taglio programmato e era stato recuperato quanto la neve dello scorso anno e il vento della stagione più recente avevano abbattuto? Non ho potuto fare nessuna supposizione e, almeno in un primo momento, ero più interessato da altro.
Volevo indovinare che specie di alberi avevo davanti agli occhi. Molti larici, facilmente riconoscibili dal colore rossiccio. Ai larici associo subito l’idea di un legno forte, pregiato e prezioso; chi ne possedeva tanti aveva una ricchezza.
C’erano degli abeti rossi il cui tronco è però bianco – si direbbe candido – e mi colpirono le loro dimensioni dato che alcune piante erano davvero grandi. Ma riconobbi anche alcuni abeti bianchi. Possibile? Sì, perché la loro corteccia è inconfondibile e la forma circolare, quasi perfetta, del tronco funziona da distintivo sicuro. Ad un certo punto la supposizione sulla provenienza dal Cansiglio mi parve abbastanza sicura, proprio per l’indizio degli abeti bianchi.
Se avessi potuto sentire l’odore non avrei più avuto dubbi sulla classificazione. Ma purtroppo nell’abitacolo dell’automobile questo non arrivava; potevo solo immaginare l’amato profumo di quel legname dotato della capacità di svegliare tanti ricordi e di riportare a galla molte sensazioni note solo a chi conosce e ama il bosco.
Poi dalla poesia scesi nella prosa. Perché il nostro legname va in Austria? Non siamo capaci di trattenerlo, di lavorarlo e di venderlo noi stessi? Abbiamo smontato un’attività produttiva, vecchia di secoli, che aveva dato ricchezza al nostro territorio? Antichi mestieri che ci appartenevano sono stati addirittura dimenticati? Poi li facciamo rivivere in quelle malinconiche dimostrazioni dei "lavori di una volta" che popolano le sagre paesane. Sono sicuro che si tratti di una moda destinata a sfiorire presto. Quando ritorneremo ad essere creativi e non nostalgici conservatori di quanto abbiamo lasciato morire.
Ho provato ammirazione, poi invidia e poi rabbia per i nostri vicini austriaci che amano a curano meglio di noi il territorio, i boschi, i pascoli e i lavori che forniscono risorse preziose.
Intanto continuavo a guardare quei tronchi; ritornavano le domande sull’origine, la specie, l’età; rinasceva l’ammirazione che l’albero, anche tagliato in tronchi, produce in me, senza che io possa controllare da dove nasce.
Erano belli quegli alberi, erano forti: appartengono alla nostra vita.
Vanno in Austria o forse procedono per la Germania. E se fossero i nostri ambasciatori? Certamente potrebbero parlare di noi, testimoniare della nostra terra, raccontare qualcosa della nostra storia.
Li utilizzeranno per costruire case; diventeranno mobili, pavimenti, scale. Per molti anni, anche per secoli, saranno una presenza della nostra piccola patria in regioni lontane e conosceranno generazioni che noi non vedremo mai.
Ad un certo punto parole astratte e spesso logore come interdipendenza, solidarietà, unità europea priva di dogane, presero la concretezza del legno. Dicono che il legno si muova, scricchioli e parli anche dopo tanto tempo da quando è stato tagliato dal bosco. Sarebbe capace di raccontare storie che qualche immaginazione saprà decifrare. Allora parlerebbe anche di noi e di questi nostri giorni.
Ho salutato calorosamente i nostri "ambasciatori" che prendendo la via del Comelico e dell’Austria si stavano allontanando.
Ho continuato il mio viaggio incontrando i boschi vivi della valle dell’Ansiei. Quel giorno, nei tratti non esposti al sole, c’era ancora un po’ di neve caduta di recente e ferma sui rami.
Mi sentivo a casa, contento della terra che mi è toccata in sorte, dalla quale non vorrei più staccarmi.
Convinto però che il futuro non sarà l’isolamento, la chiusura, il ripiegamento su noi stessi, il nostro passato, la nostra lingua. Anche i nostri alberi ormai vanno lontano. Un giorno sulle navi veneziane andavano anche più lontano, entrando nella grande storia.
«Dove arriverete, parlate bene di noi!».

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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