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I nodi dell’abete bianco

di Luigi Del Favero

Tanti anni fa, dopo una delle mie prime prediche, ho fatto un proposito che ho sempre mantenuto: non avrei mai più predicato sul perdono.
Cosa era accaduto? Avevo parlato del dovere di perdonare in modo così maldestro da far soffrire più di una persona presente. Si erano sentiti colpevolizzati e inchiodati alla fatica di dimenticare e di riallacciare rapporti cordiali in seguito a torti, offese, contese.
Io avevo fatto la morale, insistendo appunto sul dovere del perdono e ricollegandolo in modo indebito alla famosa supplica del ’Padre nostro’ dove si chiede a Dio la remissione dei debiti «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Avevo detto che Dio ci perdona in misura di come noi perdoniamo ai fratelli. Cosa abnorme che immiserisce Dio e condanna noi a non poter mai sperare nel suo perdono così dipendente dalla nostra incapacità di amare i nemici.
Oggi, dopo decenni, oltrepasso quel vecchio proposito e torno a parlare del perdono. Mi ha convinto un aneddoto ascoltato in Cadore da uno che ama il legno. È una storia costruita con la fantasia, ma con le radici piantate nell’esperienza. Racconta di un vecchio boscaiolo che alla morte raggiunge le porte del Paradiso e viene sottoposto all’interrogatorio da parte di san Pietro, che tiene ben strette nelle sue mani le chiavi, permettendo di entrare solo se l’esame viene superato.
Il candidato se la cava bene: è stato un brav’uomo; ha lavorato con onestà, ha mantenuto la fede, ha sempre pregato, come marito e come padre è stato fedele. Ma c’è in agguato l’ultima domanda: «Hai perdonato a tutti? C’è qualcuno che attende ancora il tuo perdono?».
Il boscaiolo tentenna; risponde che sì, ha perdonato, ma c’è una riserva. San Pietro lo ammonisce con bontà, esortandolo ad un perdono sincero e universale. Il boscaiolo scuote la testa in segno di diniego perché la riserva rimane: «A quelli proprio non posso perdonare». L’esaminatore si fa severo e minaccia di non poter aprire le porte del Paradiso; l’alternativa è l’inferno. Il vecchio, con molta tristezza, dice di accettare la propria sorte, ma insiste sull’impossibilità di compiere il passo richiesto. Anche san Pietro è deluso e tuttavia emana la sentenza di condanna, aggiungendo la richiesta di poter almeno sapere chi sono quelli che non possono essere perdonati. Il boscaiolo tra le lacrime quasi grida, usando il proprio dialetto: «I gropi de l’avedin!». In italiano va tradotto: «I nodi dell’abete bianco». Erano costati al vecchio tanta fatica, gli avevano creato disguidi penosi con tante perdite di tempo da non meritare riconciliazione.
Chi ha pratica sa bene che l’abete bianco ha un lungo fusto, molto diritto, privo di rami. Questo rende il tronco, di un legno assai malleabile, particolarmente maneggevole e adatto a trarne tavole prive di nodi con le quali costruire mobili e fare pavimenti. In tempi lontani, al di là delle Alpi, costruivano piroghe per attraversare fiumi e laghi, utilizzando l’abete bianco che si può facilmente domare. In Austria, sul fondo di un lago, ne hanno trovato una di 4.000 anni fa. Essiccato è tutt’altra cosa: resistente, forte, duro. Specialmente dove ci sono i nodi dai quali si dipartivano i rami. Non si riesce più ad aprirli; l’accetta rimane spesso incastrata tanto che né spacca il legno né si riesce a farla tornare indietro. Se san Pietro l’avesse saputo avrebbe avuto pietà del boscaiolo.
Tanto spazio ai nodi dell’abete bianco per dire alcune convinzioni.
La prima: il perdono non riguarda solo i nostri simili, ma anche tante esperienze e fatti: la malattia, una sconfitta, un lutto, un’opportunità perduta, un ritardo, un lavoro duro. Perfino la propria statura, la propria voce, il nome che portiamo e che raramente ci piace o l’essere nati e cresciuti in quel dato paese che ora non amiamo più. Poi anche persone con le quali ci sono state esperienze negative.
Perdonare allora è liberare dentro noi stessi un prigioniero chiuso in sentimenti di rabbia, risentimento, ritorsione, senso di inferiorità, malinconia perenne, per uscire nella libertà dove c’è una serena accettazione di fronte alle sconfitte della vita, da qualsiasi parte siano arrivate.
Perdonare è guarire da una brutta malattia il cui sintomo principale è il ricordo ossessivo di ciò che ci ha fatto male o di coloro che ci hanno fatto del male. Come tutti i processi di guarigione c’è bisogno del tempo per curare a poco a poco le conseguenze della malattia che ci ha lasciato deboli.
Al di sopra di queste belle considerazioni si affaccia però quel volto ben noto della persona alla quale ci sembra proprio impossibile perdonare.
Uno psicologo potrebbe scavare, chiedendoci cosa ci provoca ancora dolore o perché vogliamo rimanere inchiodati ad un’esperienza negativa. Tante volte c’è l’orgoglio ‐ anche sano ‐ che è stato ferito. Preferiamo soffrire pur di non apparire deboli e remissivi.
Gesù, che in questo caso ci parla dalla Croce, conosce una scorciatoia e ci dice: «Ho pagato io per tuo fratello che ha peccato contro di te. Prenditela con me perché da qui in avanti rispondo io per lui. Se vuoi colpisci me».
A questo punto è vicina la grazia del perdono. La prigione scricchiola, la guarigione ci rende forti e la svolta è ad un passo. Vale per i singoli individui e anche per i popoli: mani e lingua depongono le armi e si riesce a stringersi di nuovo la mano.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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