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Da dove si inizia?

di Luigi Del Favero

Da Firenze ci stanno parlando di Umanesimo.
Non è la prima volta che accade. L’altra la conosciamo dai libri di storia che ci hanno insegnato come quella città sia stata il centro dal quale si è esteso a tutto l’Occidente un movimento di rinascita che, per aver messo al centro l’uomo, è stato chiamato Umanesimo.
A scuola abbiamo ritrovato le tracce di tale movimento nella letteratura, nell’arte, nella scienza, nella politica, nella filosofia. Forse non abbiamo preso sufficientemente sul serio la traccia più profonda, quella che ha lasciato l’orma dell’Umanesimo nato a Firenze nell’autocomprensione che l’uomo ha di sé. Come cioè si vede nel mondo, con gli altri, davanti a Dio, nel lungo cammino della storia.
In questa settimana i cattolici italiani con i loro Vescovi e con la guida del Vescovo di Roma hanno lavorato alla ricerca di un nuovo Umanesimo da costruire guardando a quell’uomo veramente riuscito che è Gesù di Nazareth. Senza di Lui brancoliamo nell’oscurità e la nostra vita, la morte, l’attività umana che comprende lavoro, scienza, tecnica e soprattutto pensiero, amore e anche dolore, rimangono un enigma.
In più c’è il senso di smarrimento che recentemente si è diffuso un po’ in tutti noi, rubandoci la speranza senza la quale il futuro ci fa paura. Viviamo l’esperienza della divisione e della frammentazione che ci fa tanto male, quasi prigionieri dell’individualismo predicato negli ultimi decenni, che ora ci sta presentando il conto.
A Firenze stanno "lavorando". Non discutendo, non solo studiando, non celebrando un congresso in cui si ascoltano conferenze preparate da specialisti, ma proprio lavorando ascoltandosi, mettendo insieme esperienze, condividendo un cammino che in tanti stiamo facendo per ritrovare la fisionomia dell’Uomo. Non è poco, anzi è impresa formidabile che non terminerà certamente in una settimana.
Da dove inizieranno?
Qualcuno suggerisce di ripercorrere il cammino dell’umanità.
Quando ritorniamo indietro e cerchiamo le origini dell’uomo noi abbiamo una certezza: «Qui è passato l’uomo perché ha sepolto i propri morti». La sepoltura e il culto dei morti è un segno sicuro dell’umanità. Sappiamo che le tombe risalgono a decine di migliaia di anni fa, all’uomo di Neanderthal, nei pressi di Colonia: il corpo del morto non era abbandonato in preda agli animali o alle intemperie, ma veniva messo in una grotta o sotto terra, adagiato in una posizione di riposo e attorniato da oggetti che diventavano un segno che i vivi lasciavano accanto al morto.
Questi non veniva dimenticato; piuttosto il suo ricordo era coltivato come un bisogno del cuore dei famigliari e anche della comunità. Gli animali non fanno nulla di simile. Solo gli uomini provano tale bisogno e sviluppano tutta una civiltà della sepoltura. Quanto compivano gli antichi Egizi costruendo le piramidi è molto istruttivo. Ma non erano da meno gli Etruschi.
Noi possiamo restare a casa e risalire molto indietro nel tempo visitando Mondeval ‐ tra San Vito di Cadore e Selva – dove è stato scoperto lo scheletro di un cacciatore preistorico. La sua sepoltura sotto un masso desta grande interesse scientifico e fornisce una testimonianza preziosa sull’uomo preistorico che onorava i propri morti.
In un batter d’occhio tutta una civiltà rischia di essere spazzata via da comportamenti inquietanti che stanno prendendo piede anche tra di noi, senza che ci si allarmi tanto.
Dalla diffusione della pratica ambigua della cremazione, alla dispersione delle ceneri; dai funerali "privati", all’assenza di un momento di commiato, fino alla scomparsa di ogni rito e alla cessazione totale della manifestazione del lutto. Sappiamo che ogni caso ha la sua spiegazione e merita rispetto perché spesso, dietro comportamenti che appaiono strani c’è una sofferenza profonda. Tuttavia l’allarme va lanciato: stiamo perdendo qualcosa di essenziale per l’Umanesimo. Ne va della concezione del nostro futuro, della coesione sociale del gruppo ‐ paese, quartiere, ambiente di vita e lavoro ‐ e del modo con il quale viviamo nel nostro corpo. Esso è da onorare non solo quando è sano, bello, giovane, ma anche quando è ammalato, stanco e vecchio. Anche quando diventa un cadavere dal quale è indispensabile separarsi, mantenendone tuttavia la memoria e ritornando laddove è stato deposto. Che tristezza l’assenza dei bambini e quella totale dei giovani alle celebrazioni di inizio novembre!
La preghiera semplicissima della Chiesa domanda per i morti il riposo. È cosa molto umana che nasce dal sapere che la vita diventa spesso un combattimento, una fatica, un dolore che domandano finalmente riposo.
Per restare uomini o per ridiventarlo una strada parte proprio da qui: come viviamo la morte? che legami coltiviamo con quelli che ci hanno preceduto? come partecipiamo ai lutti delle nostre comunità?
Nella preghiera in cui chiediamo il riposo per i morti domandiamo però anche la luce, quella che non si spegne mai e di cui abbiamo bisogno tutti, vivi e morti.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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