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Il velo dell’ignoranza

di Luigi Del Favero

Trovo difficile fare volontariamente l’esperimento di vivere qualche giorno senza notizie, cioè senza televisione, senza radio, senza giornali, senza internet. Però capita di fare l’esperienza di tale situazione. Un viaggio può portarci lontano, una malattia o un lutto familiare hanno il potere di estraniarci, la severità della guida di un ritiro spirituale può chiederci il digiuno totale dalle notizie per una settimana. Il risultato finale è sempre identico: quando si ritorna alla ’normalità’ e si viene come sommersi dalla valanga che ci investe ogni giorno o semplicemente si sfogliano i quotidiani che non abbiamo aperto per giorni, si prova un senso di delusione, di malessere, di rifiuto a riprendere quel contatto che abitualmente cerchiamo. Perlopiù si constata: «Non ho perso nulla! Ho fatto una buona disintossicazione». Qualcosa però ci attira, quasi doverosamente. Altre volte sono l’interesse o la curiosità ad essere sollecitati. E si rientra nel circolo delle notizie con l’attenzione a selezionarne alcune in modo imprevedibile.
Reduce da uno di questi periodi di astinenza dai giornali e dalla televisione, sono rimasto colpito dall’annuncio dell’iniziativa delle mamme di Ventimiglia che giorno e notte fanno la guardia ad una struttura sportiva comunale per impedire che vi siano ospitati dei profughi. Sono convinte di essere nel giusto e forse hanno delle ragioni condivisibili. Sono tante le miglia che ci separano da quella bella località ed abbiamo imparato a diffidare di quanto dicono nei telegiornali o scrivono sui giornali e perciò mi astengo da ogni giudizio, soprattutto da ogni giudizio morale di condanna. Però non posso fare a meno di riflettere sentendo con intensità crescente che c’è qualcosa che non va nella tenacia di quei genitori. Ritorna alla mente la storia del velo dell’ignoranza. L’ha proposta alcuni anni fa un pensatore diventato importante nelle università di mezzo mondo e perciò studiato da molti in vista degli esami. Si tratta di una teoria che vorrebbe dare una regola generale per l’agire morale pubblico e dice così: «Quando devi prendere una decisione per fare una cosa giusta, immaginati di essere all’ultimo posto nella società e chiediti cosa vorresti fosse fatto se tu fossi proprio nel punto più basso. Ricordati: sui nostri occhi è steso il velo dell’ignoranza e non sai, nel modo più assoluto, se un giorno sarai davvero tu all’ultimo posto». C’è chi ha tirato su il naso e ha visto in questa proposta un utilitarismo un po’ raffinato, ma sempre egoista; altri hanno avvertito che così ci si avvia per la strada della benevolenza e non della giustizia; altri ancora hanno accusato l’astrattezza del principio. Nessuno ha potuto negare che ci sia una saggezza concreta ed un realismo che ci disincanta dall’illusione che le cose per noi debbano andare sempre meglio e che non siano possibili ricadute inaspettate. Per le generazioni occidentali ‐ cioè per noi nati dopo la seconda guerra mondiale ‐ che non hanno più conosciuto la fame, le carestie, le guerre, le epidemie del passato, il discorso rimane duro. Facciamo fatica a crederci.
Cosa c’entrano allora le mamme di Ventimiglia e di tante altre parti d’Italia e d’Europa? Come vorrebbero che fossero trattati i loro figli se un giorno dovessero trovarsi nelle stesse condizione degli immigrati di oggi? Chi può dire loro con sicurezza che questo non accadrà mai? Ecco la storia del velo dell’ignoranza steso sui nostri occhi che dovrebbe farci diventare più saggi, accoglienti e tolleranti. I profughi che vengono dall’Eritrea, dalla Somalia o dalla Libia potrebbero raccontare che un giorno, non molto lontano nel tempo, i soldati italiani hanno invaso i loro paesi, liberi e autosufficienti per quanto riguarda l’alimentazione, e al loro seguito schiere di famiglie hanno occupato "un posto al sole". Proprio in questi giorni un film documentario solleva il velo sulla più grande strage di cristiani avvenuta in Africa nel secolo XX. Ne furono autori non gli islamici, ma gli italiani che al comando del generale Graziani, vicerè italiano d’Etiopia, nel maggio 1937 hanno massacrato migliaia di monaci, preti e fedeli nel monastero di Debre Libanos. La ferita è ancora aperta nei rapporti tra la chiesa cattolica e quella ortodossa di Etiopia. Noi abbiamo realmente invaso l’Africa con le armi in pugno e sono state usate armi terribili, compreso il gas. In altre zone, francesi, inglesi, belgi, hanno fatto anche di peggio. Che sia vero che la Storia non perdona? Il perdono è sempre un’iniziativa personale, probabilmente è la più alta azione morale che l’essere umano possa fare. Corre tra persona e persona e permette all’umanità – individui, famiglie, popoli, religioni – di riprendere il cammino che altrimenti resterebbe bloccato dalle vendette. Ma le conseguenze delle ingiustizie rimangono ed esigono riparazione, altrimenti viene il momento in cui la Storia presenta il conto.
Questi pensieri non risolvono il problema di nessun immigrato, non aiutano nessun sindaco a sistemare i profughi assegnati al suo Comune, non sostengono l’opera di nessun volontario che si dedica a questi nuovi poveri, non soccorrono nessuno di quanti stanno affogando nel Mediterraneo. Occorre ricordarlo per non fuggire in sofisticherie che irritano coloro che portano oggi responsabilità concrete per il bene comune. Però potrebbero aiutarci ad essere più buoni e a scoprire che nel fondo stiamo realizzando quella giustizia che non dimentica mai il severo dovere della riparazione. O forse potrebbero aiutarci in un’operazione molto più terra terra: non chiudere gli occhi e non girarci dall’altra parte e studiare un po’ di storia.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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