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La radura

di Luigi Del Favero

Conoscevo bene quella grande radura, anche se non vi ero più stato da anni. Vicina alla strada principale della valle che stavo attraversando, la si può raggiungere in pochi minuti di sentiero a piedi. In uno di questi pomeriggi di vero caldo l’ho scelta per una pausa. Era l’ora della preghiera del Vespero e il viaggio d’altra parte suggeriva una sosta. Ho trovato la radura proprio come la ricordavo: un ampio prato pianeggiante, con alcuni «tabià» disposti in fila e il bosco che fa da cornice da ogni lato. Il prato è stato falciato di recente e tutto appare pulito. I fienili sono ben mantenuti, anzi sono stati restaurati. La preziosa sorgente d’acqua è al suo posto, resa più sicura da alcuni interventi di protezione, assai opportuni. Dal fondo valle arriva la voce del torrente che, alimentato dalle piogge, ha voce robusta. Eppure qualcosa di nuovo c’è. Me ne rendo conto dopo qualche minuto. Ecco: gli alberi sono molto cresciuti e ce ne sono di più di un tempo. Chiudono la radura da ogni lato e impediscono la visione delle montagne che pure sono vicinissime. E sono montagne degne di rispetto: il Pelmo, l’Antelao e, più lontane, le Tofane. Cerco un posto comodo e mi siedo, ma prima di aprire il libro della preghiera, mi guardo attorno, constatando che sto vedendo unicamente due colori: l’azzurro del cielo e il verde degli alberi, perlopiù abeti rossi, con qualche larice che sovrasta per altezza.
Proprio i colori che i Ladini hanno scelto per la loro bandiera! Hanno copiato dalla natura in cui vivono, ricavandone un simbolo di facile lettura. Percepisco presto una sensazione buona di riposo per cui non occorre pensare a nulla né fare nulla, dato che è sufficiente permettere all’azzurro del cielo e al verde degli alberi di entrare attraverso gli occhi per raggiungere una qualche regione più interna. È la memoria o la mente o il cuore? Non lo so né mi interessa indagare per non disturbare la percezione di tranquillità che si fa sempre più intensa. Non mi dispiace più di non scorgere le montagne. «Forse sto proprio diventando vecchio!». È l’unica ombra che attraversa questo cielo con la stessa lievità con la quale un falco si muove nello spazio aperto sopra di me. È tranquillo pure lui e molto elegante nel volo; pare pigro e se non fosse il suo verso stridulo a richiamarmi, forse neppure lo noterei. Solo in questo momento mi rendo conto che non si sentono i grilli, ma probabilmente non è l’ora giusta per il loro concerto.
Eccomi dunque in questo spazio bello, ma ristretto e chiuso.
Trovo improvvisamente una vicinanza quasi perfetta con la nostra situazione nel mondo contemporaneo. Arrivando qui ho sentito alla radio le previsioni del Censis che fissano il 2031 come anno in cui i matrimoni religiosi scompariranno del tutto in Italia. Mancano solo 15 anni! È una previsione valida? Chi l’ha elaborata? Cosa ci aspetta veramente? Le domande sono doverose e tuttavia mi dicono poco per l’oggi. Anche se non vedo oltre la barriera del presente, io devo vivere e operare qui; sono responsabile delle relazioni con le persone che oggi incontro. Sarò fedele alla realtà nella quale vivo. Come non vedo cosa c’è oltre gli alberi che cingono la radura, così non vedo cosa ci sarà oltre il tempo che mi è dato da vivere. Ma è l’unico tempo che mi appartiene e ci starò con responsabilità e pace. Anche quando mi dicono che domani chiuderanno le chiese perché la fede si spegnerà o le nostre vallate saranno spopolate o le nostre case vuote. Ripenso a Geremia che, con gesto profetico, mentre il popolo va in esilio a Babilonia, compera un terreno nella Gerusalemme deserta per farvi un orto. Sa che ci sarà un ritorno, anche se aveva tanto lottato perché la deportazione non avvenisse. O come hanno fatto i miei genitori che nel 1944 – in piena guerra – si sono sposati, chiedendo in regalo ai vicini un po’ dello zucchero razionato per poter fare qualche dolce povero e festeggiare unicamente la loro speranza che non si fermava davanti al buio di una guerra che non voleva finire. L’indimenticabile vescovo Vincenzo tirerebbe fuori ancora una volta quell’immagine che amava tanto per descrivere il tempo che ci è toccato in sorte di vivere: «È il momento di quel passaggio tipico di quando il buio e le prime luci dell’alba si intrecciano; e chi ha lavorato la notte ha gli occhi troppo stanchi per leggere la vita che sorge e chi si è appena svegliato li ha ancora intorpiditi, soffusi di foschia, per decifrare la nuova vita che avanza». Tuttavia la vita «sorge», la vita «avanza» anche se in questo passaggio nessuno riesce a vedere le cose distintamente. Non è una disgrazia vivere questo nostro tempo, purché non si ceda alla tentazione di rimpiangere il passato, rifiutando le novità dell’oggi, oppure all’altra tentazione di sognare un futuro che ancora non c’è. Abbiamo il presente popolato di persone reali alle quali essere fedeli.
Ci invaderà un po’ di pace della radura dalla quale non si scorge l’orizzonte, ma che proprio per questo ci consente di essere attenti a ogni cosa che ci sta intorno, scoprendo ricchezze insospettate. Poi arriverà l’aria fresca che scende da quelle montagne che sono appena di là, momentaneamente nascoste dagli abeti diventati fitti e grandi. Porta l’annuncio che ci sarà un domani per la famiglia, per la fede, per la nostra terra che amiamo ostinatamente.

Leggi "Don Luigi Del Favero" della settimana scorsa.

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