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Pregare insieme cambia la vita

È sicuramente un’esperienza un po’ strana vedere dei musulmani seduti tra i banchi di una chiesa cristiana. E soprattutto è un po’ inconsueto pensare che non sono là come turisti o come studiosi di architettura o di arte occidentale: no, sono là per pregare. Cioè per lo stesso motivo per cui i cristiani si radunano nello stesso luogo, ogni domenica: pregare.
La forza silenziosa, misteriosa, gigantesca, sconvolgente della preghiera, e di una preghiera fatta insieme, a più voci, secondo schemi e tradizioni diverse, ma con lo stesso obiettivo: chiedere pace. Dopo l’uccisione di padre Jacques, o forse è proprio il caso di dire dopo il suo martirio, il 26 luglio, si sono alzate molte voci: di orrore e di sdegno, di rabbia, di condanna e di paura; e, purtroppo, anche voci di odio, voci che chiedono vendetta, repressione, guerra. Come in molti casi simili di questi ultimi tempi in cui uomini e donne di ogni appartenenza religiosa, di ogni convinzione e di ogni etnia sono stati vittime di un terrorismo folle o di precisi piani di annientamento, anche questa volta si sono alzati molti cori e da molte parti: fino all’esplicito disaccordo nei confronti di chi ostinatamente persegue vie di dialogo e di accoglienza. Quasi come se si volesse dire: «Ecco, avete visto? Dialogare è perfettamente inutile!».
Domenica 31 luglio, però, in molte chiese cristiane e non soltanto in Italia, insieme alle voci ostinate di chi indica proprio il dialogo come l’unica via della pace ‐ l’unica, non una fra le tante! ‐ si sono alzate anche centinaia e centinaia di mani in preghiera. Una voce silenziosa, ma di un silenzio assordante, verrebbe da dire: una voce che ha unito uomini e donne di fede, cultura, provenienze diverse, ma accomunati da un’unica convinzione: quella di chi sa benissimo che pregare insieme cambia la vita, eccome se la cambia!
Già, perché quando è fatta con il cuore, la preghiera non mette in comunicazione soltanto le persone tra loro, ma le mette in comunicazione con il Mistero assoluto, comunque lo si voglia chiamare. È una forma sublime di dialogo la preghiera, e di un dialogo portato avanti dalle creature e dallo stesso Creatore. Certo, chi si aspetta risultati evidenti e immediati resterà a bocca asciutta: lo sa bene tutta quella parte di umanità ‐ ed è realmente tanta ‐ che in molti modi vive di dialogo, di incontro, di pazienza, di speranza, di relazioni fondate sulla conoscenza, sull’apertura, sull’incontro, sull’attesa. Nella convinzione che sì, va fatto di tutto per mettere al bando ogni forma di violenza, ma assolutamente non con altra violenza. Questa non è la strada, non lo è mai stata. Lo insegna la storia.
È per questo che la battaglia da portare avanti, se vuole essere vinta, deve usare esclusivamente le armi della civiltà, del dialogo, dell’incontro: le altre sono guerre perse in partenza.
Musulmani e cristiani hanno pregato insieme per questo; ma anche uomini e donne di altre fedi hanno fatto altrettanto e lo fanno in continuazione, con la convinzione che pregare insieme cambia la vita. Non si tratta solo di ingenuità, o di eccessivo ottimismo, o di buonismo sterile. Si tratta di fede, di una fede nuda e inerme, ma efficacissima e potentissima.
Padre Jacques è stato ucciso mentre presiedeva l’Eucaristia. Centinaia di volte, nella sua vita da prete, ha ripetuto «questo è il mio corpo dato per voi, questo è il mio sangue versato per voi e per tutti». Martedì 26 luglio quelle parole di Cristo sono diventate l’ultimo gesto della vita di quell’anziano prete. E come ogni vita data per gli altri non rimane un gesto sterile, così anche quella di padre Jacques, come quella di tantissimi altri, cristiani e non, sta già portando frutto. Un frutto lo si è visto domenica in molte chiese cristiane.
C.B.

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