Nel pieno dell’inverno il nostro orto appare desolato, se non fosse magari per qualche verdura che abbiamo in serra o per un’aiuola di radicchio grumolo verde che è in paziente attesa dei primi tepori di marzo per rigermogliare. Ma questa stagione è propizia per pensare a nuovi progetti, a come riorganizzare l’orto, per effettuare la manutenzione degli attrezzi, per qualche buona lettura.
Era, una volta, anche il tempo per andare a “frasche di fagioli”. Oggi i sostegni per questa preziosa leguminosa per lo più si acquistano: belle canne di bambù, dritte, tutte uguali, mentre una volta si ricavavano dal bosco, e spero che qualcuno lo faccia ancora. Ricordo benissimo le mattinate trascorse nel ceduo, roncola in mano, a sfoltire ceppaie per lo più di nocciolo, tagliando i polloni di 2-4 anni, grossi alla base un po’ più di un pollice e lunghi 2-3 metri. In Cadore mi pare si utilizzasse l’abete rosso. Ora tutti i boschi della Valbelluna si sono sviluppati molto, gli alberi sono diventati più grandi, la struttura della foresta è cambiata e, per esempio, nel nostro bosco in Talvena, dove ogni anno si facevano 30-40 o più frasche, non se ne trova oggi più una, e così da molte altre parti: i noccioli, all’ombra, crescono male.
Nel bosco le frasche venivano riunite in gruppi di 15-20 e legate assieme con le “sàche”, che altro non sono che germogli di nocciolo non dell’anno in corso e privi di rametti, attorcigliati in modo sapiente con le mani fino ad ottenere una sorta di legaccio flessibile. È un’abilità, oggi per me quasi del tutto inutile, di cui vado ingenuamente fiero. Quanta manualità che è ormai andata persa con l’abbandono di queste belle tradizioni.



Le frasche vecchie durante l’inverno venivano private a colpi di roncola della parte eventualmente malsana che era stata nella terra e veniva rifatta la punta (“spizàr frasche”). Ciascuna frasca poteva durare qualche anno, cosicché in ogni inverno, o ad anni alterni, ne venivano sostituite solo una parte di quelle utilizzate. La frasca di nocciolo o di altra latifoglia andrebbe pure meglio di quelle di bambù, la cui superficie troppo liscia lascia spesso scivolare verso il basso l’intera pianta di fagioli/tegoline pesante e carica di baccelli, sempre che la stessa non si possa ancorare a un filo metallico di interconnessione fra i sostegni o a un altro tutore vicino.
Michele Cassol
Leggi anche la prima puntata della rubrica: L’aglio, nel silenzio dell’inverno un germoglio verde
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1 commento
SPOLAOR DINO
Mi pare che le Sache che servivano a legare non erano ricavate più frequentemente dai salici da vimini che avevano la corteccia color giallo-arancio?