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sabato 7 Giugno 2025,

Fossili di sangue: una passione interrotta tragicamente dal terremoto del 15 settembre 1976

La storia dei geologi Giulio Pisa e Riccardo Assereto e del figlio undicenne di quest'ultimo e il racconto delle operazioni di soccorso (foto di CarniaMusei Rete Museale)

In occasione delle iniziative per ricordare il “padre” delle Dolomiti, Déodat Gratet de Dolomieu, il Comune di Valle di Cadore, nel 1988, aveva allestito e aperto il Museo geo-naturalistico comunale, iniziativa che purtroppo non aveva riscosso molta fortuna, tanto che venne smantellato già nel 1992, solo pochi anni dopo la pur lodevole iniziativa scientifica. Il museo era stato dedicato a Giulio Pisa (1936-1976), professore di Geologia Regionale dell’Università di Bologna, tragicamente deceduto a cavallo del Cadore e della Carnia, del quale ora racconteremo la drammatica storia.

Nell’estate del 1976, Giulio Pisa si trovava nella zona di Casera Razzo con il collega Riccardo Assereto di Milano per approfondire una serie di studi sul Trias del Cadore e delle Dolomiti e sulle “vulcaniti ladiniche”, con particolare attenzione alle caratteristiche geomorfologiche del Monte Bivera (2.474 m) e del Monte Clapsavon (2.462 m). Proprio in quest’ultima area aveva raccolto nel tempo numerosi campioni di ammonoidi, ma anche di bivalvi, gasteropodi e brachiopodi, effettuando studi e pubblicazioni ritenute molto qualificate dal punto di vista geologico.

Il Rifugio Tenente Fabbro (1.783 m), in comune di Vigo di Cadore, era la loro base logistica e operativa, dalla quale si spostavano per le escursioni scientifiche e alla quale facevano ritorno la sera, come già accaduto nelle precedenti campagne geologiche.

“La mattinata del 15 settembre, poco dopo le ore 11:00,” – ricordano Evelino Del Favero e Antonio Genova, rispettivamente Capo Stazione del Centro Cadore e Volontario della Stazione di Pieve di Cadore – “una forte scossa di terremoto aveva colpito il vicino Friuli (in realtà 4 scosse comprese tra il 5.6 ed il 6.0 della scala Richter, la più forte alle 11.21), provocando ulteriori danni rispetto al sisma devastante che all’inizio di maggio dello stesso anno aveva portato morte e distruzione. A sera, attorno alle 22.15, la moglie di uno dei due professori, che lo attendeva al rifugio, non vedendolo rientrare, si allarmò al punto che il gestore, con doveroso scrupolo, ritenne opportuno far chiamare i soccorsi.”

Le squadre dei Volontari della Stazione del Centro Cadore, allertate per competenza territoriale, vennero velocemente approntate e con 12 uomini si portarono senza indugio sul posto, iniziando le ricerche sin da subito sul lato ovest del Monte Bivera, secondo le prime indicazioni fornite dalla stessa moglie. Le ricerche si protrassero per tutta la nottata sotto un temporale violento, che mise a dura prova gli operatori del Soccorso Alpino anche per le circostanze del tutto particolari che ebbe lo sviluppo dell’operazione.

Il monte Bivera

Degli scomparsi, però, non emerse nessuna traccia né indizio utile a individuare con esattezza il luogo di ricerca più probabile, ad eccezione di un tentativo fatto dallo stesso Capo Stazione che, su indicazioni della signora Pisa, aveva invano provato a identificare l’area in cui si sarebbe dovuto trovare un campo estivo universitario diretto dagli stessi professori dispersi. Non era stato però possibile sapere con esattezza dove fosse ubicato questo campo e, per questa ragione, l’operazione di soccorso, in assenza di elementi certi e probanti, assunse velocemente tinte piuttosto fosche.

Già nelle prime ore di ricerca erano state percorse svariate tratte di sentiero nelle zone identificate come aree primarie di ricerca. Erano stati effettuati numerosi richiami acustici, ma senza che avessero alcun esito positivo: nessun segno di presenza o di risposta. La situazione sembrò nottetempo precipitare ulteriormente.

La notizia che sino ad allora non era emersa e che lasciò impietriti tutti i soccorritori al rifugio fu quella comunicata solo alle 2 dalla moglie del professor Pisa. Forse per una banale, ma non perdonabile dimenticanza, forse per la forte componente dello stress che la stava martoriando, si era del tutto scordata di dire che il professor Assereto non era solo, ma era accompagnato dal figlio undicenne, Andrea, che di certo doveva trovarsi con il padre, avendolo seguito nella campagna geologica sin dal primo giorno. Al dramma che tutti stavano vivendo si aggiunse, quindi, anche la marcata preoccupazione per la sorte del ragazzino legata in modo indissolubile a quella delle due persone adulte.

Possibile che tre persone disperse, nonostante l’ampia zona di ricerca battuta fino a quel momento, non dessero alcun segno di sé? Cosa poteva essere successo? Un semplice smarrimento? Un ritardo dovuto a qualche piccolo trauma subito da uno dei tre? Avevano magari seguito una traccia labile e si erano spostati su un altro versante o su di un altro gruppo montuoso?

Alle 4 del 16 settembre, valutato l’andamento della ricerca e il suo esito sconfortante, Del Favero decise di telefonare a Lino Cornaviera, Capo Stazione del Soccorso Alpino di Pieve di Cadore, richiedendo l’appoggio di altri uomini freschi e, possibilmente, profondi conoscitori del territorio.

Nonostante lo sforzo notevole prodotto per tutta la notte, la ricerca continuava a risultare vana, né erano emersi elementi utili a dare coerenza alle attività in corso. Fu, quindi, opportunamente deciso di contattare l’Università di Bologna per raccogliere informazioni più certe sulla dislocazione del campo studentesco, oltre a ricercare altri elementi utili per indirizzare le operazioni di soccorso verso possibili obiettivi concreti. Gli accademici confermarono che i professori Pisa e Assereto stavano studiando gli strati werfeniani, rocce rossastre anche di notevoli spessori che, proprio per la loro particolare colorazione, risultavano visibili anche da distanze ragguardevoli.

Un volontario esperto della zona, Roberto Zandonella, tra le altre cose campione olimpico nel 1968 e mondiale di bob a due, venne inviato sulla strada che conduce a Sauris per cercare ed osservare le formazioni rocciose con il binocolo, fornendo così delle indicazioni più precise alle squadre che si muovevano sul terreno. Fu questa in qualche modo l’ultima speranza, poiché la tesi raccolta all’università sembrava essere piuttosto verisimile e, in ogni caso, era l’unico elemento emerso che avrebbe potuto dare un senso e una svolta ad una ricerca complessa e senza riferimenti di sorta. Dopo dodici ore di ricerca sotto la pioggia, i volontari erano ormai provati e si avvertiva palpabilmente il senso di impotenza per non essere riusciti a finalizzare l’operazione di soccorso.

Via radio, dopo qualche tempo, Zandonella segnalò di aver intravisto una parete con le caratteristiche rocciose che erano state descritte e che, come tale, poteva essere oggetto dell’attenzione delle squadre. Alcuni soccorritori si diressero allora con una marcia, sostenuta senza tappe e con zaini decisamente pesanti, verso la parete orientale della montagna che era stata loro segnalata. Avevano risalito un rapido canalone e al suo termine avevano finalmente trovato delle tracce di scarponi impresse nel terreno fangoso e ancora visibili nonostante l’acquazzone da poco cessato.

Pochi minuti dopo, sul bordo di un altro canalone, posto poco più sopra al precedente, emerse la suola di uno scarpone, appena affiorante dalla terra e dalla ghiaia. In una sequenza tragica, poi, si trovarono più o meno affioranti altri oggetti: degli zaini e delle borse con il loro contenuto; quindi, parti dei corpi semisepolti dalle rocce sbriciolate e dalla ghiaia, rinvenimenti crudi che davano però almeno la certezza del ritrovamento delle tre persone disperse.

Alle 13.40 la base logistica ricevette, dunque, la conferma del tragico ritrovamento: i due geologi e il figlio del professor Assereto erano stati individuati. Venne comunicato laconicamente che erano certamente morti sul colpo a causa del crollo delle rocce predette, che era stato causato dalla scossa tellurica avvenuta il giorno precedente. Una volta avvisato anche il Soccorso Alpino confinante che si stava operando in territorio friulano e avuto il consenso da parte dell’Autorità giudiziaria, i corpi martoriati, assieme a tutti gli effetti che fu possibile rinvenire, vennero recuperati e composti nei sacchi salma anche con l’aiuto di altri volontari del Soccorso Alpino che, nel frattempo, si erano portati nel luogo del tragico ritrovamento con numeroso materiale tecnico di soccorso per garantire lo spostamento delle salme e la loro traslazione a valle.

Dopo tre ore di manovre, con una teleferica allestita per superare una successione di canaloni e qualche salto di roccia, le spoglie degli sfortunati appassionati e studiosi di geologia furono, infatti, trasportate nella cella mortuaria di Sauris di Sopra, concludendo nel tardo pomeriggio un intervento emotivamente e tecnicamente molto complesso che, anche grazie, all’intuizione di ricercare informazioni mirate all’università, era stato possibile effettuare con successo pur nella sua comprensibile tragicità.

2 commenti

  • Il racconto di questa tragedia, provocata dal terribile terremoto che nel 1976 ha colpito Venzone, Moggio Udinese ed altri paesi adagiati ai piedi delle Alpi orientali, mi ha portato alla mente la storia della Saetta.
    Nel gruppo del Sorapiss si alzava snella una piramide, battezzata così proprio per la sua forma. Il caro amico Franz Dallago Naza, persona meravigliosa, l’aveva addocchiata e finalmente nel settembre 1969, assieme al cugino Armando ed a Paolo Michielli Strobel, era riuscito dopo parecchie ore a conquistarne la cima. Ci ha pensato quel disastroso terremoto, non so se in maggio o in settembre, a far piazza pulita. Sono rimasti gli scritti di Franz a tenerne viva la memoria. Da qualche parte dovrei avere il piccolo libro che ne parla, col ricordo di una grande persona che ho avuto l’onore di conoscere.

    • Grazie della preziosa testimonianza.
      Ha delle foto per caso?
      Saluti.

      Fabio Bristot – Rufus

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