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lunedì 16 Giugno 2025,

Il rischio del santino. L’eredità di Francesco da non sprecare

Tra le innumerevoli reazioni che la morte di papa Francesco ha suscitato e le considerazioni sul suo pontificato ce n’è una di insopportabile e mistificatoria: quella di chi vorrebbe sistemare in fretta Francesco nella foto del santino, magari accendendovi un cero votivo a fianco (Foto Calvarese/SIR)

Tra le innumerevoli reazioni che la morte di papa Francesco ha suscitato e le considerazioni sul suo pontificato ce n’è una di insopportabile e mistificatoria: quella di chi vorrebbe sistemare in fretta Francesco nella foto del santino, magari accendendovi un cero votivo a fianco. Per essere più chiari, c’è chi, specie nel mondo della politica, in questi giorni, prima e dopo il funerale, lo sta ipocritamente beatificando, per passare velocemente ad altro, archiviando questi dodici anni come il tempo di un papa simpatico, dal sorriso disarmante, che amava stare con la gente. Un po’ d’incenso e via, per dissolvere tutto in una gran nuvola di
fumo profumato. In attesa della prossima fumata bianca.

E’ il tentativo, pensato a tavolino, di chi vuole depotenziare i messaggi, i gesti e le scelte dirompenti di un papa che ha scosso le coscienze dei credenti e dei non credenti, rivolgendosi a tutti, dagli ultimi ai potenti della terra, con una parola disintermediata, empatica e sempre ispirata alla compassione, ma proprio per questo carezza dolcissima e insieme spada tagliente. Che è poi la forza del Vangelo “nudo”. Già dopo l’affaccio dalla Loggia delle benedizioni, da quel primo, spiazzante “buonasera”, si poteva intuire che il pontificato di Jorge Mario Bergoglio avrebbe riservato molte sorprese e comportato sconvolgimenti in seno alla Chiesa e attese al di fuori. E’ stato subito evidente che “c’era un’aria fresca del Sud che ha fatto irruzione nella Chiesa”, per usare una frase del teologo argentino Juan Carlos Scannone. Era il 13 marzo 2013, di sera, quando i 115 cardinali chiusi nella Cappella Sistina lo elessero al quinto scrutinio. Primo papa gesuita, primo papa americano e argentino, che da giovane, prima di farsi prete, ballava il tango nei barrios de Flores di Buenos Aires. Primo papa che ha osato chiamarsi come il “poverello d’Assisi”: una scelta che in quel nome dettava già un programma e uno stile.

IL PAPA CHE VIENE DALLA “PERIFERIA”

Un papa “venuto quasi dalla fine del mondo”, da una delle tante periferie che avrebbe subito messo al centro della sua attenzione, per accendere su di esse i riflettori dei media distratti. Acquisiscono così un senso anche i suoi 47 viaggi nel mondo, toccando tanti Paesi “ai margini” con la sua “diplomazia low cost”, dal Myanmar a Timor Est, dalla Nuova Guinea alla Mongolia. E’ sempre lui che sceglie come prima meta l’isola di Lampedusa, per far visita ai migranti, nel 2013 e invita per la prima volta a combattere contro la “globalizzazione dell’indifferenza”. D’altra parte, non dimentichiamolo, Bergoglio è anche il primo papa discendente da emigranti (italiani stavolta), provenienti da una “periferia”, da quel “bricco” Marmorito, borgata di Portacomaro Stazione, disperso tra le alture astigiane, terra di aratri e contadini.

Ma non basta. Papa Francesco indice un Giubileo straordinario sulla Misericordia. E dove va ad aprire la Porta Santa sconvolgendo la prassi plurisecolare della Chiesa? A migliaia di chilometri distante da Roma, a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, sconvolto da un sanguinoso conflitto civile, uno dei tanti “pezzi” di quella “guerra mondiale” che non s’è mai stancato di deprecare, anche se inascoltato. I suoi ostinati, martellanti appelli alla pace per la “martoriata Ucraina”, per la Palestina e per tutti quei luoghi del mondo dove si consumano le “guerre dimenticate”, sono risuonati fino a quando la malattia gli ha lasciato un filo di voce. Solitario a chiedere il disarmo in un’Europa invasata dall’idea di riarmarsi per contare ancora qualcosa.

I GESTIO FERIALI DI FRANCESCO

Ma c’era già tutto Papa Francesco nei suoi primi gesti “feriali”, come la messa a Santa Marta, i “venerdì pomeriggio della Misericordia”, i pranzi con i clochard, l’invio dell’elemosiniere, l’istituzione della Giornata mondiale dei poveri, e ancora la messa del Giovedì Santo 29 marzo 2013, quando lava i piedi a dodici detenuti nel carcere minorile di Casal Del Marmo (prima volta che la Lavanda dei piedi esce dalla Basilica di San Pietro; prima volta a due ragazze, di cui una musulmana). Per inciso: un po’ di Veneto lo portava con sé in quel grembiule donatogli dalla comunità di San Francesco, di Facen di Pedavena, con cui celebrò quattro Lavande in altrettanti Giovedì Santi. L’amore per i poveri, dicevamo, per i migranti, per le periferie esistenziali e fisiche: c’è già qui tutta la “chiesa in uscita”. L’espressione appare per la prima volta nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, che lui stesso ebbe a definire il testo programmatico del suo pontificato. In essa c’è l’immagine di Chiesa che piaceva a Francesco “povera per i poveri”, per riprendere il concetto pastorale dei cristiani come dei “girovaghi della fede”, callejeros de la fe, affermato nella Quinta conferenza generale dell’episcopato latino-americano celebratosi a Aparecida (Brasile nel 2007). Diceva tra l’altro: “posto di Cristo è la strada. E così pure il posto del cristiano”. Ecco giustificata la Chiesa missionaria, e la conseguente pastorale sociale che diventa scelta politica, per gli ultimi. “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade – afferma il pontefice – piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti”.

UN MODELLO PER GLI ALTRI

Anche con l’abbigliamento papa Francesco ha mostrato di prediligere questo modello ecclesiale sobrio, di servizio: dalla vecchia borsa scucita portata nei viaggi, alla croce di ferro, fino alle scarpe grosse, regalategli quand’era cardinale dalle cugine piemontesi. L’attenzione verso i poveri è strettamente legata alla preoccupazione per la natura, ai disastri del cambiamento climatico: cura del Creato, giustizia sociale
e impegno nella società sono le facce di una sola “ecologia integrale” che ascolta “tanto il grido della terra, quanto il grido dei poveri”. Da questo concetto nasce l’enciclica “verde” Laudato sì e il suo successo globale. L’idea dell’interconnessione tra la fragilità del pianeta e quella degli ultimi a causa di un “paradigma tecno-economico” dominante che genera guasti ambientali e sociali è un’altra novità assoluta nel pensiero della Chiesa sull’ambiente. Da questo testo sono nati in giro per il mondo scuole, movimenti politici, gruppi di studio e lavoro che operano per approfondire le intuizioni della cosiddetta ”Economy of Francesco”. La denuncia di papa Bergoglio nei confronti della “cultura dello scarto” e il consumismo che trasforma gli emarginati in “avanzi” sociali e crea inequità planetaria è forte e ha creato non poche reazioni
politiche scomposte, con accuse piccate di intromissione in ambiti economici che sarebbero stati fuori dalla tradizione magisteriale cattolica. Peccato che la dottrina sociale della Chiesa da sempre si occupa autorevolmente di questi temi. Ma al contempo, quanti uomini di governo, amministratori, dirigenti, sindacati hanno posto esplicitamente l’enciclica come manifesto programmatico del loro agire? Purtroppo questo appello radicale, sottolinea Luigi Accattoli, “è stato rigettato da parte della maggioranza silente”.

FRANCESCO E LA MISERICORDIA

Sempre, comunque, sullo sfondo, ad illuminare il disegno programmatico dell’intero pontificato bergogliano è la parola-guida “misericordia”, ovvero il “vero volto di Dio”, la verità prima annunciata dal Vangelo, sine glossa, “senza calmanti”, come spiegò ai superiori generali degli istituti superiori a novembre 2016; Vangelo da cui deve ripartire la Chiesa per essere luogo accogliente e credibile. Alla misericordia è ispirata chiaramente anche l’esortazione Amoris Laetitia, che vuole avvicinarsi anche a chi nell’amore ha conosciuto il fallimento; ed è sempre misericordia che stavolta si fa fratellanza, quella raccontata nell’enciclica sociale Fratelli tutti. Sempre da qui, l’idea di chiesa come “ospedale da campo”, con un’altra delle sue fulminanti metafore che lo hanno consacrato grande comunicatore con semplici immagini popolari: “un ospedale da campo dopo la battaglia, che cura le ferite e riscalda il cuore”. Una chiesa che si faccia prossimo, vicina “a tutti coloro che hanno bisogno di consolazione”, senza escludere nessuno. Non è
casuale, allora, la predilezione del pontefice per i preti di strada, i “curas villeros”, i preti di frontiera, quelli che facevano i parroci nelle periferie di Buenos Aires e delle altre periferie degradate latino-americane, dove operano presbiteri che uniscono alla spiritualità profonda, la lotta per i diritti sociali, contro il narcotraffico, che si immolerebbero per il loro popolo, come il pastore fa con le pecore. I preti che rischiano, che, appunto, “odorano di pecore”, che si sporcano le mani, non i carrieristi, o quelli che stanno in ufficio.

LA RICERCA DI PASTORI DI ANIME

Non stupisce allora se è proprio a questa tipologia di sacerdoti che Bergoglio ha sempre attinto per le nomine episcopali. Il pellegrinaggio a Bozzolo e a Barbiana, terre di sacerdoti scomodi come don Mazzolari e don Milani, sta lì a confermarcelo: papa Bergoglio ha sempre prediletto pastori amati dal gregge, più che dalle gerarchie. Questa è la prima e più importante riforma voluta da papa Francesco, come spiegò in una famosa intervista rilasciata ad Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica: «Quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato».

LE RIFORME

Infine sulle riforme strutturali e organizzative, papa Francesco ha indubbiamente aperto tanti cantieri, alcuni, oggi, in stato avanzato, altri appena appaltati, altri invece arenati. “Fare le riforme a Roma è come pulire la sfinge d’Egitto con lo spazzolino da denti”, mandò a dire un giorno. Anche Benedetto XVI se ne accorse. Il potenziamento dei sinodi (miniconclavi che coinvolgono le chiese nel territorio), comunque, va nel senso di aggiungere “collegialità” al governo della Chiesa. Si tratta di capire se il successore confermerà queste scelte o lo sconfesserà. Quello che è certo, e non modificabile a breve, è la composizione meno occidentale del collegio cardinalizio che si riunirà in conclave e che deriva dall’opzione di Francesco per una Chiesa globale, cioè più universale (che poi significherebbe più “cattolica”) che tenga più in considerazione le periferie, a discapito della centralità “romana” ed occidentale. Questa è un’altra grande scommessa di Bergoglio, diventata programma perseguito con determinazione con la nomina dei tanti
nuovi cardinali fin dal primo concistoro. Su 138 votanti oggi, ben 110 sono stati nominati da lui, prediligendo Asia, Americhe, Africa e Oceania cioè il cosiddetto “Global South”, e valorizzando molte sedi “periferiche” non cardinalizie (vedi Laos e Centrafrica) perseguitate, o comunque a minoranza cattolica.

VERSO UNA NUOVA COLLEGIALITÀ

L’accelerazione verso la sinodalità, la collegialità (pensiamo solo al nuovo consiglio di nove cardinali il “C9”) e la valorizzazione delle chiese periferiche comportano dei rischi, primo fra tutti quello di un indebolimento della centralità di Roma e la tendenza centrifuga di alcuni episcopati, specie in Europa e negli Usa. Dissidi e contrasti non sono certo mancati con alcune conferenze episcopali come quella tedesca, su tematiche di rilievo come la sessualità e il matrimonio. E se non è “scisma di fatto”, come qualche osservatore insinua, poco ci manca. Avversari e nemici dichiarati in seno alla Chiesa ci sono eccome (leggi cardinali Bertone e Muller, o ancora padre Georg) e così voci di complotti, veri o presunti. Niente di nuovo, d’altra parte, nella millenaria storia della Chiesa cattolica.

UNA GRANDE FIGURA, DA NON EDULCORARE

Ebbene, tutto si può dire su questo papa e il suo pontificato. Lo si può definire un modernista, un buonista, un populista come lo tacciano alcuni movimenti tradizionalisti? Un rivoluzionario come altri lo vogliono? Un gesuita che nella dottrina nulla ha spostato di quanto fosse già dogma e regola? Di certo è stato un’autorità morale, carismatica, universalmente riconosciuta come forse nessun’altro oggi; un leader disarmato che ha saputo parlare non solo al suo popolo ma al mondo intero, a partire dagli ultimi, in un tempo in cui il cattolicesimo vive la sfida, per certi versi mortale, della scristianizzazione e della complessità della contemporaneità. Un leader che ha mostrato alla sua Chiesa una strada da percorrere fino in fondo, col coraggio e la speranza del Vangelo. Ancora il confratello gesuita, padre Spadaro, osservò: “Jorge Mario
Bergoglio è forte proprio perché non è, né vuole essere un uomo forte”. La sua immagine in carrozzina, dopo la dimissione dal Gemelli, con addosso solo un poncho argentino, quello dei campesinos, senza abito bianco, né papalina, è l’ultima potentissima immagine iconica di questo pastore, uomo tra gli uomini, venuto dalla fine del mondo per parlare davvero a tutti fino ai confini del mondo.
Ecco perché “tumulare” Francesco nell’edulcorante santino agiografico che si usa spesso in queste occasioni è non solo sbagliato, ma sarebbe la più grande fake news mai inventata su di lui. Che tradisce l’intento vero dell’operazione: sconfessare la grandezza spiazzante di un pontificato, unendosi alla schiera dei detrattori, ma senza lasciare impronte digitali.

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