Sulle rive del loghét erano piantate le viti più belle. Il terreno in gran parte pietroso integrava col calore la scarsa fertilità del suolo: magre ma sane, robuste, dolcissimi gli acini. Tutto intorno bosco ceduo con robinie, cornioli, pruni e noccioli selvatici, qualcuno innestato con virgulti buoni. D’estate il sottobosco era ricco di ciclamini profumati ma c’erano anche molti roveti di more e lamponi. Il segreto del loghét era una grande galleria scavata nella pietra durante la prima guerra mondiale, nascosta completamente dagli alberi, dove il nonno teneva gli attrezzi e la botte del verderame col suo prezioso e pericoloso lago turchese. Da piccolo ho cercato più volte di esplorarla senza trovarne il fondo ma ritornatovi qualche anno fa vi ho trovato una curva secca dopo una decina di metri (anche la pietra vive, è ovvio).

L’orto delle grave era invece una scommessa annuale in quanto soggetto alle esondazioni periodiche del fiume. Per fortuna l’ultimo tratto di terra era protetto dalle crode rosse che diventarono la nostra spiaggia estiva all’inizio degli anni Sessanta. Lì si ballava, si cantava e possibilmente si amoreggiava, ma erano cose più immaginarie che reali. Vi si accedeva per il sottopassaggio della ferrovia superando una veloce roggia dove, fino all’interramento delle casse di scarico d’acqua della nuova centrale idroelettrica di Quero, che ne decretò la sparizione, si ritrovavano le donne a lavare i panni e a raccontarsi paure e speranze. Nell’orto della Piave si producevano straordinarie patate, zucche e fagioli ma soprattutto asparagi, attentamente cercati, curati, coccolati, quotidianamente da aprile a giugno. L’ultimo orto del nonno fu cancellato dalla disastrosa piena del ’66 in cui vidi personalmente l’acqua giungere all’altezza dei binari e ancora credo sia stato un sogno. Poi vecchiaia d’uomo e disastro ambientale uccisero anche questa nostrana Fenice.
Recuperanti
Alla sala comando della Ferramenta Zago si arrivava per sentieri strettissimi delimitati da pareti di schegge ordinate secondo chissà quale metodologia ma precisa. Per me era giorno di festa quando decidevamo di andarci per portare il nostro bottino raccolto con pazienza e fatica (del rischio non si parla, mai considerato) durante le giornate di ‘gita’ in Monfenera.
Si saliva piano, in quota, specialmente nei giorni successivi ai grandi temporali con la speranza che l’acqua, scorrendo, avesse portato alla luce altro materiale bellico da recuperare: schegge di granate, più che altro ma anche cartucce, pallini di piombo e altro. Mio nonno mi lasciava quasi tutto anche perché le sue ricerche significative le faceva lavorando da solo e rischiando spesso la vita. Così il guadagno lo facevo io, tenendosi lui il ricavo di tutti i miei sorrisi. Con una moneta da 10£ si poteva cavare una ciunga rotonda dal borsolotto fuori dell’osteria da Sisto, oppure acquistare da Marcello una figurina dei calciatori (come adesso) o una rivoluzionaria pallina di plastica sotto il cui specchio trasparente c’era l’immagine di un corridore famoso come Coppi (Bartali stava già in declino) e Baldini, poi Adorni. Alla pista di sabbia sul greto della Piave, pensavamo noi!
Le passeggiate
Da piccolo, la passeggiata più faticosa era arrivare fin su a la cros passando a fianco de la piera de l diàol dove a monito si potevano vedere impressi gli artigli del demonio (ogni volta un batticuore); oppure si andava a Ponte Tegorzo, dove l’ampio verde barsò dell’omonimo Albergo, garantiva di poter bere tranquilli un ottimo bicchiere d’acqua senza neppure pagare, prima di arrivare, poco più in là, ai Fàveri, dove c’erano amici da non scomodare troppo e una lapide da commentare ogni volta sul grande latinista Egidio Forcellini1 che proprio lì era nato. Sulla qualità dei Forcellini ero d’altronde sicuro anche perché quelli in centro al paese avevano una bottega sempre fornita di tutto, specie di mortadella col pistacchio per cui andavo matto e che pregustavo dal taglio in poi osservando le fette, che la nonna pretendeva finissime, passare dalla pinza alla carta oleata mentre il volano della macchina rossa, mossa a mano, portava avanti e indietro il prezioso carico. Dai Forcellini si comprava di tutto e sfuso: pasta, riso, petrolio, olio di semi e anche certi sgombri giganti che sembravano saltar fuori dal vaso di latta sgocciolando di mare; e poi tonno rosa da infilare con una cipollina dentro un panino per merenda, quasi meglio (solo quasi) del preferito pane e lardo!

Il conflitto quotidiano era un problema di stomaco dato che di fronte alla bottega c’era la chiesuola ossia il Tempietto dell’Addolorata dove le suore e tutte le donne del paese andavano a recitare il rosario quotidiano verso le cinque del pomeriggio, figli e nipoti teneri compresi. Neppure i canti a squarciagola e tanto meno le preghiere ci riuscivano bene perché l’incenso profumava poco messo in concorrenza con gli odori che arrivavano dalla bottega a rovesciare immagini di leccornie desiderate sul profilo dei Santi e del manto nero della Madonna.

Altro posto limite per la passeggiata era la chiesuola di San Giacomo, a metà strada tra Fener e Pederobba, cui si perveniva anche attraverso strade campestri costeggiando il canale della Brentella per poi risalire la china verso la statale.
Il transito automobilistico era abbastanza raro e non passava quasi nessuno a differenza di oggi giacché il posto è ora frequentato da donne più devote ai camionisti che all’antico protettore della strada.
- L’Autore (1688-1768) del famoso Lexicon Totius Latinitatis. ↩︎
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