Mio nonno materno1, di cognome faceva Durighello ed era un grandissimo cantore fin da giovane; me lo diceva sempre mostrandomi una fotografia dove si vedeva anche che era stato un gran bell’uomo. Aveva cozzato in modo diretto in due guerre uscendone con ferite ed onori – croci e medaglie varie – di cui però non si vantava. Ho scoperto della sua partecipazione alla ‘Compagnia degli Arditi’ perché in prossimità di andarsene mi regalò un libro specifico sul tema, il medagliere, il diploma di Cavaliere di Vittorio Veneto, e la tessera n. 2099 della F.N.A.I (Federazione Nazionale Arditi d’Italia), mandamento di Feltre, in cui se ne ricorda l’appartenenza alla Compagnia ‘Baseggio’ e il riconoscimento di una Croce al merito di Guerra per 4 anni trascorsi in quella formazione e 4 ferite subite. Conservo il tutto con attenzione, specie il suo cappello originale da Alpino, con cui, fra l’altro, ho sfilato con orgoglio a un paio di Adunate annuali – in rappresentanza – s’intende, e anche per diritto di discendenza.

Ho comunque ereditato anche altre medaglie tra cui l’onorificenza d’argento per la Guerra di Libia, l’unica di cui mi parlava ma non per raccontarmi vicende belliche quanto di palme e leoni con cui farciva favole fantastiche che io volevo sempre mi raccontasse. Mi lasciava toccare e giocare anche col doppio evidente segno di cicatrice di pallottola ben visibile al collo tipico, diceva, dei proiettili ‘passanti’ (parenti, è ovvio, dei ‘traccianti’). Dopo la guerra, si era impegnato, come ex-combattente, a dare una mano agli Orfani di un Istituto locale nel tempo libero dal lavoro in ferrovia.
Da pensionato era un cultore di acciughe salate e di formaggio morlacco, giacché, diceva, – fanno la voce limpida e potente – e soprattutto giustificavano qualche ombra in più di vino – credo non estraneo al miglioramento canoro – e soprattutto i ritardi nei rientri serali dall’osteria.
Allora si giocava alle carte o da Sisto, o alle Sbarre o nella locanda delle sorelle Bachetti, tutti dotati anche di campi da bocce.
Anche se la distanza tra questi siti e casa era di pochi metri, il ritorno poteva essere difficile; allora le donne, a una cert’ora, andavano a riprendersi i mariti, brontolando quando non imprecando sottovoce.
Quando mio nonno era in cerina, la prendeva allegra e persino sfotteva, mentre mia nonna lo guardava con occhi di fuoco levandogli scarpe e indumenti non senza fatica: «almanco taʃi co no tu sé sinziero» gli diceva; poi cominciava il vero calvario perché la camera era al piano di sopra e le scale, strette e troppo ripide.

Nonna Maria
Mia nonna era una brava cuoca e di sicuro tramite la figlia mi ha trasmesso questa passione.
Da giovane credo avesse pure fatto questo mestiere oltre che l’assistente nelle colonie marine estive organizzate dal fascio (almeno così si direbbe dalle numerose foto di gruppo lasciate).
Resta il fatto che era una buona massaia e ottima economa anche se molto ansiosa e un bel tantino permalosa.

Mio nonno, che pure non era sordo, aveva imparato a lasciar passare i continui brontolii e a prendere solo il buono che c’era; insomma, in due combinavano il massimo, anche nelle piccole cose.
Se il nonno, ad esempio, aveva il compito di coltivare e raccogliere i radicchi… la nonna aveva quello di curarli, di lasciarli a lungo in acqua alla fontana, e di sciacquarli. Poi si metteva appena fuori della porta, affacciata al cortivo, coi radici serrati nella canevaza stretta sugli angoli e zimm e zamm, con colpi precisi ed armonici delle braccia pendolava il fardello fino a sgocciolarlo del tutto. Li metteva quindi nella grande terina, in realtà si trattava di un catinaccio smaltato bianco col bordo blu scuro, che aveva sostituito da tempo il vecchio recipiente di terracotta, troppo piccolo per il gusto del nonno. Intanto che riprendevano volume, Nani controllava se tutto era in ordine, se le radici erano tagliate giuste come voleva perché, diceva «erano la parte più buona» e se le godeva in alternanza coi cuoricini più dolci e le foglie croccanti. Padrone del fogo de cuʃina, poneva nel fondo del padellino di ferro, nero, le fettine di lardo roseo che aveva tagliate dopo aver scostato delicatamente i grani della salatura. Se lo godeva con gli occhi mentre sudava pian piano diventando sempre più minuto; e spostava il tegamino all’esterno dei cerchi della stufa per non disturbare quel pianto con l’eccessivo calore, piano, piano fino a che i ciccioli cominciavano a diventare trasparenti, poi a rinsecchire diventando ambrati. Allora, ritirato il ferro, sostava un attimo prima di compiere il gesto quasi magico del rito, sopra l cadin, col bottiglione dell’aceto in mano – un gesto fermo nonostante il peso – e poi un sorso violastro, un leggero rumore di sfrigolamento e giù.

D’improvviso un profumo particolare riempiva la stanza, sollecitava le narici e di riflesso lo stomaco e la gola; era l’invito alla marenda o al pranzo o alla cena quotidiana mentre arrivava, corteggiata dal suo alone di vapori, la gialla polenta saltata sul taier al centro della tavola, più luminosa della nuova lampada co l lètrico, da tagliare bollente, co l fil, da ritirare a scota-deo per dar principio, gustosamente, al momento più desiderato della giornata. Eh già, perché spesso di colazione si trattava, in alternativa o assieme alla minestra di fagioli avanzata alla sera. Di solito questo accadeva all’ora del mio risveglio, al mattino verso le otto, al suo ritorno dal primo ciclo d’attività nell’orto o nei loghét, che faceva all’alba in modo da evitare il lavoro nel calore della giornata. Governare la càneva e i loghét, sistemare murature e attrezzi, sacrificare maiale e conigli era suo compito, mentre la nonna si occupava di uova e galline nel loro ciclo completo ovvero di vita e di morte.
Alle galline tirava il collo ma le sapeva pure sgozzare con le forbici perché adorava il sanguet co la zéola, una versione rustica locale del ‘fegato alla veneziana’. Inoltre così risultava più facile spennarle e poi squartarle, pulire e lavare il ventriglio, curare il fegato, sezionare per lungo le budella e nettarle perfettamente per fare le trippette in brodo per la menèstra maridada.
Queste operazioni che a qualsiasi ragazza d’oggi sembreranno truculente – e per cui si potrebbe venire denunciati da qualche ‘animalista’ dell’ultima ora – erano all’ordine del giorno e facevano parte della educazione rustica particolarmente attenta alla gestione della sopravvivenza e ai cicli di consumo a residuo zero, che non generavano perciò rifiuti (ma che moderno sto passato eh!).
Mio nonno d’altronde stecchiva i conigli con un colpo al collo dato a dorso di mano – stessa mossa del karatè che però non era conosciuto – e subito li appendeva al travo de l pòrtego, per le zampe, e con quattro incisioni precise di coltello sfilava loro la pelle come si trattasse di rovesciare un guanto2. Poi mi mandava a casa a prendere qualcosa e quando tornavo la bestia era già bell’e che decapitata e il sangue finito in concimaia. Così mi godevo la fase conclusiva di vederlo mettere la paglia dentro la pelle per poi appendere il trofeo al vento sotto la tettoia assieme agli altri pronti per il carrettino di ‘Sèlmo’ che, al grido di strase osi e fero vècio, prima o poi sarebbe passato.
La partecipazione attiva a quest’ordine, e la condivisione dei suoi principi, base della cosiddetta saggezza popolare, sono stati ispiratori delle innumerevoli rappresentazioni teatrali, radiofoniche e televisive che dagli anni Settanta al nuovo millennio mi hanno consentito di intrattenere uno straordinario rapporto col pubblico, vuoi tramite la poesia, che la prosa e la musica, sia a titolo personale che assieme ad altre persone cui mi sono via via affiancato. Su questa aneddotica conto di tornare spesso nel corso di questa storia.
- Era nato a Fener di Alano il 3 novembre del 1892, nella casa paterna di via Nazionale 72. Morì il 23 ottobre 1971 a Valdobbiadene dopo un secondo ricovero per ictus.
↩︎ - La scena è di quelle che hanno dato in seguito origine a una battuta ‘belumattiana’ tramite la quale mettevo in guardia le persone del pubblico a non lasciarsi andare alle lusinghe, come il coniglio del nonno che pensava alle lisciature prima del colpo fatale come fossero carezze! ↩︎
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