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sabato 7 Giugno 2025,

Se un giorno fossi soccorso, scriverei che…

Cronaca di fantasia (ma non troppo) di una caduta in montagna, un ranuncolo giallo e uomini coraggiosi

L’elicottero era forse dovuto rientrare a causa del vento impietoso e della pioggia che sferzava indifferentemente tutta la montagna. Non sentivo più quel rumore delle pale che sbattono l’aria graffiarmi piacevolmente l’udito. In sottofondo percepivo, ora, solo qualche voce affievolita dalla distanza e, forse, anche dalla mia agitazione. Speravo che qualcuno mi venisse a salvare, che quelle voci fioche diventassero più vigorose e a me vicine.

Dopo l’ennesimo tentativo sortito dall’elicottero e vanificato dalle pessime condizioni meteo, ero caduto in preda alla disperazione. Sentivo le residue forze mancarmi. Avvertivo, invece, quelle potenti della gravità, rispetto alle quali non sapevo quanto avrei potuto ancora resistere in una posizione di equilibrio così precario, su quella poca roccia che mi era concessa quale appoggio. Mi ero procurato ingenuamente una brutta ferita alla gamba. Ciò solo per aver deciso di scendere in modo troppo disinvolto quel maledetto canale dove, per testardaggine, ero andato prima ad infilarmi e, poi, a scivolare e precipitare malamente.

Non conoscevo ancora l’entità del trauma e della lesione prodotta, se non quella del sangue che era sgorgato con fiotti densi all’atto dell’impatto con la roccia. Sentivo anche la carne e la muscolatura sbattere sull’osso: con molta probabilità era fratturato. Accusavo un dolore forte, le fitte erano molto acute e si irradiavano anche al piede e al bacino. Stringevo i denti pensando a quello che avrei, però, provato schiantandomi di sotto. Era andata meglio per fortuna, un volo approssimativo di sette o otto metri che solo quella modesta cengia, larga un paio di spanne, aveva bloccato, prima del vuoto senza fine che mi avrebbe ghermito con le sue spire.

Mi chiedevo cosa sarebbe successo di me. Quanto tempo sarei stato in grado di restare aggrappato alla roccia, ormai imbevuta del mio sudore e della mia paura. Al mio fianco restava immobile un bel ranuncolo, impassibile alle mie richieste di aiuto e agli sguardi imploranti il cielo. Avrei voluto cogliere con le mani quel giallo intenso, cresciuto assieme ad un piccolo ciuffo d’erba sulla roccia aspra della montagna, riporlo con delicatezza nella patella dello zaino e tenerlo come ricordo. Ma forse – pensavo – non avrei mai più avuto ricordi da conservare se qualcuno non mi toglieva da quell’impiccio.

Dopo qualche minuto, quella confusione indistinta sentita più in basso, divenne un suono più gradevole: qualcuno stava davvero chiamandomi a squarciagola forse per capire dove mi trovassi con esattezza, forse per sapere se fossi stato io ad aver dato l’allarme un paio d’ore prima. Risposi con tutto il fiato che avevo in gola e nei polmoni: “Sono qua, sono qua, ehi, sono qua! Aiuto! Aiuto!”. Speravo in cuor mio che, come chi aveva raccolto il mio grido d’aiuto, dando l’allarme al 118, allo stesso modo, quelle persone più sotto avessero colto con precisione la mia voce e potessero fare qualcosa per trarmi in salvo.

Capirono fortunatamente la mia posizione e urlarono più volte qualcosa al mio indirizzo. Non compresi in modo distinto cosa stessero chiedendomi, maledicendomi per non essere riuscito a dar loro alcuna dritta o aiuto possibile. La pioggia scrosciante creava un rumore assordante e non c’era modo di comunicare in modo univoco. Alcune cascatelle sulla roccia stavano riempiendo lo zaino d’acqua ed inzuppandomi gli scarponcini, rabbrividivo e sussultavo. Di tanto in tanto, cadeva dall’alto anche qualche pietra che sbatteva con violenza più sotto. Quelle stesse persone che avevo sentito gridare al mio cospetto, dopo un tempo per me indefinito, vennero a trovarsi a qualche decina di metri da me più sotto però rispetto alla mia posizione, defilati sulla sinistra, appena sotto ad una paretina nera che stavano cercando di superare spostandosi con una leggera diagonale.

All’inizio avevo preso paura. Avevo visto arrampicarsi con estrema velocità due di quelle persone vestite in modo variopinto e non capivo se fossero in realtà altri alpinisti, richiamati dalle mie urla iniziali, o fossero davvero le squadre del Soccorso Alpino che avevo invocato e implorato di salvarmi, tanto era compromessa la mia posizione su quel modesto risalto roccioso dove ancora mi trovavo. Più sotto, altre persone, delle quali coglievo solo il gran vociare, ma non riuscivo a scorgerle distintamente a causa della pioggia e delle volute di nebbia che si spostavano di continuo sulla parete e lungo il canale. Ad ogni modo erano vestite con giacche colorate, piccoli puntini che si facevano lentamente più grandi a mano a mano che salivano.

Come potevano essere squadre del Soccorso Alpino se erano vestiti uno diverso dall’altro senza avere neanche un segno di riconoscimento attaccato addosso? Salivano in modo peraltro disinvolto sulle roccette laterali rispetto all’andamento del canale, forse dove la roccia era più salda e compatta (nda: saprò dopo che erano passaggi di terzo grado abbondante, effettuati con zaini pesanti e senza particolari sicure nella progressione). Non ne scorgevo bene i volti, né riuscivo a cogliere distintamente cosa dicessero, tanto era diventato violento il rumore della pioggia. Ero diventato un bozzolo intriso d’acqua e avvolto in malo modo dal panico che mi faceva scuotere senza più controllo il capo.

Non ce n’era davvero uno vestito allo stesso modo dell’altro. Come potevano, dunque, essere il personale del Soccorso Alpino che aspettavo? Il dubbio iniziale stava quasi diventando certezza, diversamente avrebbero avuto almeno una giacca uguale all’altra e ciò non mi era dato modo vedere. Mi sconsolai allora del tutto, stringendo ancor più con le dita arcuate e ormai affaticate quella roccia che mi permetteva di restare aggrappato alla parete. I piedi erano a penzoloni nel vuoto in modo alternato e, a seconda di come spostavo il peso ora su uno, ora sull’altro, li sentivo sempre più abbassarsi verso il baratro, là fermo ed indistinto, nonostante la nebbia che ogni tanto lo celava alla mia vista.

La fitta – anzi, le fitte – quando caricavo la gamba offesa, mi facevano impazzire dal dolore, ma dovevo alternare il peso del mio corpo, perché l’altro piede usato in appoggio ogni tanto tendeva a scivolare. Dopo qualche decina di secondi, mi raggiunsero due ragazzi che, ancor prima di dire chi fossero, presentandosi come uomini del Soccorso Alpino, avevano provveduto a piantare alcuni chiodi con estrema velocità. Non ricordo se tre o quattro, ma ricordo bene il ritmo con cui vennero infissi e il rumore particolare di una scala sonora discendente quando entravano nella roccia. Poi, in rapida successione, avevano anche provveduto a vincolarmi saldamente alla parete con una specie di imbrago, in tessuto molto robusto, che all’inizio mi incusse paura, poiché dovetti abbandonare l’appoggio del piede e mi sembrò di scivolare di sotto, senza più possibilità di fermarmi.

Nulla di tutto questo, per fortuna. Paolo, quello che dava ordini netti e precisi all’indirizzo di tutti e offriva indicazioni anche a me su cosa dovessi fare io, aveva appena precisato di aver bisogno ancora di due volontari là con lui, mentre gli altri tre, che ora scorgevo nitidamente quasi un centinaio di metri più sotto, avrebbero dovuto allestire un altro ancoraggio di calata (nda: così lo chiamavano) per farmi arrivare con “cul su le giare”. Risi, sentendo questo modo di dire dialettale, ma poi rientrai in me, costretto anche dal dolore alla gamba che andava maledettamente aumentando.

Mentre alcuni volontari stavano finendo di confezionare degli strani nodi con alcuni spezzoni di corda, un paio di loro si erano dedicati a mettermi una sorta di tutore per immobilizzare l’arto che avevo malamente infortunato con una caduta insidiosa che, solo per un miracolo, non aveva avuto conseguenze letali. Marta, così si chiamava l’infermiera del Soccorso Alpino che aveva seguito la manovra di stabilizzazione della gamba, mi aveva preannunciato che doveva essere una frattura impegnativa, ma al contempo mi aveva rassicurato sul fatto che con quello strumento avrei sofferto un poco di meno

Mentre andavo in qualche modo rincuorandomi di tanta professionalità, di tanto in tanto, davo uno sguardo fugace a quel ranuncolo giallo che sino ad allora era stata l’unica mia gradevole compagnia. Quei petali, ora leggermente più chini, fradici d’acqua, riuscivano a darmi la speranza che presto sarebbe stato tutto finito. Non avevano perso in brillantezza e questo fatto mi portava a pensare che anche io, in fondo, non avevo reagito poi così male a quanto mi era successo.

Le fasi seguenti – se ci ripenso – erano state spettacolari. In meno di un’ora ero stato calato fino alle famose ghiaie, con una competenza senza eguali, dove l’elemento della sicurezza era stato in qualche modo ricorrente, almeno ricordando quanto dicevano ad ogni piè sospinto quelli che potevo ormai definire i miei soccorritori, coloro che mi avevano salvato la vita. Ogni gesto che facevano, infatti, sembrava essere effettuato meticolosamente ed in modo misurato, ogni manovra su quel groviglio di corde e moschettoni sembrava essere quanto di più fluido e preciso esistesse, segno inequivocabile che erano state provate decine di volte e non già frutto dell’improvvisazione del momento.

Ogni parola formulata a mio riguardo era, alle volte, ironica quando serviva ad allentare la tensione, altre volte pronunciata in modo fermo, quando si trattava di farmi stringere i denti. Questo modo di interagire mi rassicurava e, in fondo, mi dava quella sicurezza di cui avevo estremo bisogno. In realtà, avevo ancora paura. Tutto quel vuoto sotto di me era in realtà quello dove sarei potuto finire solo qualche decina di minuti prima, quando ero rovinato a terra. Ma la serenità che ora mi trasmettevano Giuseppe, poi Paolo ed Enrico, quindi ancora Marco e Sabrina, Marta, poi tutti gli altri, secondo le modalità previste per la calata, mi consentiva di supporre che sarei arrivato sul sentiero, posto circa duecento metri più in basso, abbastanza sano (nda: la gamba dava un dolore lancinante portandomi a perdere di tanto in tanto i sensi), ma soprattutto del tutto salvo.

Pervenuti alla base della parete, notai che c’erano altri due soccorritori che avevano già montato una barella colorata, fatta di un metallo particolarmente lucente e assemblata con tante cinghie nere. Da là, mi avrebbero portato in poco meno di un’ora a una piazzola posta in una piccola radura prativa, dove ad attendermi c’era un mezzo del Soccorso Alpino che avrebbe provveduto, a sua volta, a effettuare il rendez-vous con un’ambulanza giunta sino alla strada asfaltata per il successivo ricovero. Durante una di queste manovre, resesi necessarie per il trasbordo sulla nuova barella con contestuale cambio del tutore, avevo visto il moncone osseo uscire leggermente dal tessuto di quello che restava dei miei pantaloni. Ero svenuto per qualche istante, ma poi, ripresomi, avevo iniziato a succhiare e mordere con avidità il lenzuolo con il quale ero stato coperto. Un poco per non lasciare uscire più alcun lamento dalla mia bocca riarsa, un poco perché mi pareva aumentasse la salivazione, quel lembo bianco di stoffa sarebbe stato il mio antidolorifico sino all’arrivo all’ospedale.

La pioggia aveva smesso di scendere poiché non la sentivo più tintinnare sulla lamiera della carrozzeria dell’autolettiga dove, nel frattempo, ero stato spostato. Ormai ero arrivato in ospedale, dove un’infermiera piccolina, riccia, con dei bei capelli neri mossi, mi aspettava assieme ad un medico per portarmi a fare le radiografie del caso, che evidenziarono la serie di fratture che mi ero procurato in quel canale (nda: avevo rotto il piatto tibiale ed il perone con due diverse fratture di cui una scomposta).

Dopo qualche settimana da quell’incidente e dopo aver tolto il gesso ed iniziato la fase riabilitativa, avevo iniziato a ripensare con rara intensità a quella giornata. La memoria scandiva in modo puntuale tutti i particolari di quelle ore e le varie fai del soccorso. Ricordava tutti i soccorritori: i ragazzi e le persone più adulte, poco più in là con gli anni e che, pur sprovviste di una divisa degna di questo nome, avevano dimostrato di saper lavorare in modo esemplare in équipe (nda: era la cosa che più mi aveva sorpreso, quasi che l’abito facesse, secondo l’antico adagio, anche il monaco; compresi poi il motivo della mancanza di un capo identitario, dovuta alla carenza di risorse adeguate, che in ogni caso andavano prima destinate all’acquisto dei vari materiali).

Ripenso alla velocità con la quale erano arrivati fin dove mi trovavo, ferito e pericolante. Ma ripenso soprattutto alla disinvoltura con la quale armeggiavano con i vari materiali da soccorso e alla perizia con cui, senza mai perdere tempo, erano riusciti a calarmi per tutto quello strapiombo, in una linea pressoché verticale e con la gamba ben immobilizzata. Rivedo poi i volti di quegli uomini. Le smorfie della fatica nelle fasi iniziali che avevano lasciato il posto ai sorrisi distesi sul sentiero. Le loro giacche e felpe modello arlecchino, la pesante ma indispensabile ferraglia che avevano addosso e le tante corde e cordini con le quali avevano apprestato le calate…

Ricordo la calma rassicurante che trasmettevano con ogni gesto, ogni parola, ogni decisione presa in una situazione che per me invece rasentava il terrore puro. Riesamino anche altri particolari minuti: quel fiore giallo che avrei voluto cogliere prima di essere calato. Alla fine avevo deciso di lasciarlo lassù, pesando che la sua memoria sarebbe stata naturalmente ed eternamente intatta solo se lo avessi lasciato là a fare capolino sulla verticalità di quelle rocce, dimensione che non avrebbe trovato né nel mio zaino né sul comodino del mio letto d’ospedale.

Ora, col senno di poi, sento che qualcosa in me è cambiato e maturato in altro: l’esperienza del dolore, della paura, dell’impotenza assoluta, mi ha lasciato un segno profondo. Ma ancor più, mi ha colpito la dedizione di chi ha scelto, senza clamore né gloria, di portare in salvo vite umane. Quei volti, che all’inizio non sapevo riconoscere come soccorritori, ora li vedo nitidi nei miei pensieri.

Ammirazione, solo ammirazione provo per quelle persone, vestite tutte così diversamente da sembrare quasi disordinate, ma abbigliate con lo stesso colore del cuore e della passione per quello che stavano facendo: semplicità e genuinità di spiriti liberi, di persone autentiche che non scorderò mai. Grazie a voi vero volto dell’eroismo della normalità, quello di chi si mette al servizio, senza bisogno di divise, né tantomeno di medaglie che vengono poi date solo ai morti. Grazie a quel ranuncolo giallo, cresciuto tra le crepe aspre della roccia, memoria silente della compagnia che ha saputo offrirmi.

1 commento

  • È quanto di più bello la vita ci regala. La possibilità di dare un aiuto ad un altra persona per lo più sconosciuta. Colui che dona in questo modo non ha bisogno di apparire perché è il donare il grande regalo.

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