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giovedì 5 Giugno 2025,

9. I parenti di Curògna / Altri parenti di parte materna

«Il futuro è già passato ovvero mi, Belun, i Belumat e le bele compagnie». 9a puntata

I parenti di Curògna.

Il fratello della nonna, lo zio Bepi (dei Selle), abitava invece in pianura, presso Curògna. Si andava in corriera fino a Pederobba e poi via per i campi nascosti nel granoturco estivo alto e grasso per abbreviare il percorso. La sua colonìa era situata in cima a un piccolo rilievo del terreno che ne aveva un altro dirimpetto sul lato est dove abitavano i Caldi.  La famiglia dello zio Bepi era molto numerosa e la zia Polda aveva il suo bel daffare a badare ai vari figlioli tra cui ricordo Natalino, Pasqualino, Esterina, Romeo, il Cinto … e soprattutto la Anna che aveva poco più della mia età e sapeva tutto degli animali del suo cortile dove oltre al maiale, c’erano vacche, capre, pecore, galline, colombi e delle bellissime oche che ebbe persino il coraggio di affidarmi perché le guidassi con la bacchettina verso la solita pozza d’acqua, poco distante dal caseggiato rustico. Ricordo perfettamente i loro becchi arancioni sopra i lunghissimi colli, tutte in fila, più alte di me e affatto spaventate mentre io … se avessi potuto scappare! Ma l’orgoglio dove lo mettiamo?

A Curògna con il cane Mirko.

La mia bestia preferita era comunque Mirko, uguale in tutto e per tutto a Lessie, mito tra i cani della prima tv e unico concorrente di Rin-tin-tin. Di fatto mi pareva intelligentissimo e sembrava capire tutto ciò che gli dicevo. Un giorno mi chiesero di andare dai Caldi in cerca di un certo Baciòco e il Mirco mi ci portò sicuro solo al mio ripetere quei nomi.

Zio Bepi Polda.

Dai Caldi ci tornai un’altra volta a prendere in prestito un curaréce1 per aiutare zio Bepi a preparare al porzèl pa i saladi. Eravamo andati col nonno per aiutarlo nel delicato compito e lui sarebbe venuto qualche giorno dopo da noi a ricambiare il favore. Far su il maiale era una festa e poi si mangiava il tastasal2 con la polenta!

Della casa di zio Bepi ricordo ancora il taffiere più largo della tavola3, il profumo della sopressa matura, ancora insuperato, la zuppa di pane coi piccioni4 e le penne del pavone, che mi incantavano per ore nel cortile quando gli andava di fare la ruota. Ma la Polda ogni tanto riusciva a rubargliene qualcuna e con una di quelle per regalo me ne tornavo ogni volta felice a Fener e poi a Belluno.

Altri parenti di parte materna

Io che ho sempre pensato di averne pochi, solo di recente e per via di foto e di carte, ho cominciato a mettere a fuoco alcuni ricordi brevi ma precisi in fatto di parenti. Buona parte competevano alla nonna, la cui nonna (scusate il bisticcio) era una Brancaleone da Tiser; non ricordo come si chiamasse sua madre ma so che ebbe sette figli. Oltre allo zio Bepi, appena visto, aveva una sorella, Lucia, sposata a Torino con lo zio Giacomo: li rivedo perfettamente per via di una visita memorabile fatta nei primi anni Cinquanta, iniziata col primo ‘vero’ viaggio in treno fatto assieme ai nonni: indimenticabili il cambio a Padova, la stazione di Milano, le uova sode col sale e le facce dei parenti sconosciuti che mi aspettavano a Porta Nuova: qualcuno mi prese in braccio dalla pedana del vagone; credo di aver avuto sui sei o sette anni. 

Lo zio Giacomo in visita a Fenèr.

Stavano verso Porta Palazzo, che chiamavano Porta Pila, in via Caresana numero 7; lo ricordo perché la nonna me l’aveva fatto imparare a memoria per qualche mese, aggiungendo l’indirizzo alle preghiere serali: non si sa mai, se ti perdi… 

Da allora per me Torino è il regno dei morti5 per via, non tanto di una visita al cimitero monumentale (altro che Disneyland, un tempo) pieno di bellissime statue, ma di una o più chiese visitate – oltre al Cottolengo –  dove vidi qualche corpo benedetto – sempre cadaveri sono – conservato nel vetro sotto gli altari, per non dire della visita culturale al Museo Egizio dove questi meravigliosi reperti si sprecavano col massimo della classe.

La paura della morte mi si era fatta ferita nel giorno delle esequie della mia bisnonna6 – avrò avuto 4-5 anni – allorché qualcuno mi sollevò di peso e mi infilò nella bara aperta per darle un ultimo saluto. Devo aver reagito male perché dovettero portarmi via a forza avendo cominciato a prendere a calci una delle sedie di cucina che, contrapposte, fungevano da catafalco casereccio. Morti a parte, a Torino, dalla zia Lucia e dallo zio Giacomo7, mi confortò più che mai la scoperta degli agnolotti e, al ritorno, quella dei baci e dei gianduiotti confezionati per me in una scatola insieme ai portugai, che mi sembravano proprio uguali alle arance della zia Maria Secco: ma non dissi nulla.

Maria Selle nel 1960.

Altra Maria Selle, parente, ma più giovane della nonna – sarà stata sull’età di mia madre – veniva ogni anno a farci visita durante l’estate e si fermava da noi qualche giorno; era un’altra nipote diretta, figlia dell’altro fratello Ernesto, e aveva pure una sorella suora che ho visto una sola volta8, e ancora un’altra che si chiamava Rita ed abitava, credo, a Milano. Federico, quasi coetaneo, e la Anna, poco più giovane, suoi figli, venivano talvolta a Fener per qualche giorno di vacanza. 

La Maria appariva speciale, vestiva bene, era profumata ma soprattutto parlava con cadenza ricercata – oggi in gergo radiotelevisivo, si direbbe, ‘col birignao’- Si imputava la qual cosa al suo lavoro da ‘governante’ – diceva lei9 – in una casa blasonata, presso la corte di un importante senatore della Repubblica cui sembrava molto devota. I suoi gesti erano sempre misurati e ogni particolare perfettino fino a renderla distante: neppure la sua conoscenza totale della canzoncina «ero in bottega, tichetà, che lavoravo tichetà, e non pensavo tichetà, alla prigione, tichetà», riusciva a farmi accettare di andare a farle compagnia a letto. Artelusa per situazione, si sposò attempata con un vedovo rimanendo a sua volta sola e forse ancor oggi è viva o morta a Treviso.

So ancora dell’esistenza di altri fratelli della nonna Maria (uno morto in guerra e un altro finito in America) anche se il suo legame con la California agordina, mitica terra dei careghete, era tenuto dai cugini Bonfardin cui lei e mia madre parevano molto legati.

Il problema del ricordare i parenti è arduo anche perché, da noi, quasi tutti emigravano stabilendosi spesso lontano dal suolo natio. Nonno Nani aveva almeno due fratelli: di Riccardo mi resta solo il nome ma zio Gaetano l’ho ben conosciuto e gli assomigliava pure e aveva il baffo affascinante. S’era sposato a Savona e qualche volta d’estate era tornato a Fener con tutta la famiglia facendomi scoprire una serie di cugini Durighello tutti biondi, ricci e con un accento dialettale completamente diverso e divertente. Il più giovane, ma più vecchio di me, si chiamava Claudio; poi, mi sembra, un Enzo e forse un Delfino: ma sarà mai possibile sto nome?

  1. Attrezzo fantastico che ci mandavano a chiedere a qualche confinante pur di tenerci lontani nel momento cruento della uccisione del maiale che si faceva a coltello. Ottenevamo un sacco, con un peso nascosto dentro, da riportare faticosamente a casa: un ricordo che mi … pesa ancora! ↩︎
  2. Si chiamava così la pasta fresca del salame che, cotta in tegame, dava modo di verificare all’assaggio la qualità della salatura: una goduria. Solo dopo di ciò si passava ad insaccare (corrispondeva in genere al pasto del mezzogiorno). ↩︎
  3. La scena della mensa rustica e della sua sacralità mi hanno suggerito per contrasto l’atmosfera di ‘Mensa aziendale’, poesia del mio volumetto ‘Cante’ del 1980: Al Moro féa matoni de creda / in frà la schena e l sol. / Esterina / moldéa co i oci furbi / de n riz de castégna. / Al Cinto, / e le so man /come varsóri. / Bèpi, la Pòlda e l Ana e Natalin /e vin de pon su la tovaia; / pan e formai e mosche intorno / da divider insieme la dornada / te la tola de Dio. / Ringraziamento. / Odie la mensa aziendale. Le esperienze di Curogna servirono da spunto a molti dei brani di ‘cabaret’ fatti da ‘Belumat’. ↩︎
  4. La colombera era stata ricavata alla meglio dal sottotetto del fienile e, a dire il vero, non so se la ‘sopa coada’ che ho mangiato, fosse di colombino o di piccione giovane; so solo che era squisita e profumava di rosmarino e sedano.
    ↩︎
  5.  Nonostante l’ovvia visita alla Mole ma soprattutto a un presepio meccanico bellissimo, installato nei pressi; il che lascia intendere la portata del trauma! ↩︎
  6. Abitava dai nonni, era magra e segaligna e sempre vestita di nero. Mi ‘bravava’ (sgridava) di continuo, perché mi arrampicavo dappertutto e gridava «òciu che tu cai, òcio che tu cai» (guarda che cadi, guarda che cadi) la qual frase, così inusuale, mi faceva felicemente e impunemente ridere. ↩︎
  7. Selle Lucia era sorella di mia nonna Maria mentre lo zio Giacomo faceva di cognome Camolese. Avevano un figlio, Aldo, molto simpatico, che qualche volta veniva a Fener per trovare la zia.
    ↩︎
  8. Mi risulta l’unica di ‘famiglia’ che ha preso i voti. Per il resto sono senza zio prete o frate, il che, un tempo, era raro. ↩︎
  9. Credo facesse, in realtà, la guardarobiera, il che è un altrettanto distinto lavoro. Difatti, a detta di mia mamma, stirava benissimo. ↩︎

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