La Genesi. Dio ci ha messo sette giorni per realizzarla. Lui sette anni per fotografarla. Sebastião Salgado, il più grande e noto fotografo e fotoreporter documentario del nostro tempo, ci ha lasciato. Lo incontrai per intervistarlo nel 2014 quando venne a Venezia per inaugurare la sua straordinaria mostra alla Casa dei Tre Oci: Genesi. Ne riporto l’impressione che ebbi di lui e del suo lavoro, riproponendo parte di quanto scrissi in quell’occasione per Jesus. Non si parla solo di fotografia, ma soprattutto di ambiente, di fede, di papa Francesco, di cura del creato.
Anzitutto non ama le definizioni che cercano di circoscriverne la sua arte e la sua persona: “fotografo militante”, “ecologista”, “umanista”, “antropologo, naturalista con la fotocamera”. Il suo fastidio delle etichette rasenta l’iconoclastia. Sebastião è come una splendida foto senza didascalia. Una potente immagine evocante, senza note a piè di pagina. Forse, l’unica apposizione che non gli sta stretta è quella del viaggiatore. Perché è quella più vera: Genesi, è stato un viaggio durato oltre sette anni anni, suddiviso in 32 reportage in giro per il mondo, dai poli all’equatore dalla foresta amazzonica alla Nuova Guinea; dalla taiga dell’Alaska ai deserti sahariani. Ma subito mi corregge: «Così tanto tempo non può essere impiegato solo per un semplice progetto fotografico, ma sono un’opzione di vita, una scelta esistenziale, vista peraltro la mia età non più giovane. Una scommessa sulla mia salute e un atto di volontà e disciplina». Per amore della fotografia e del pianeta Terra.
Sebastião Salgado, brasiliano, ma da tempo residente a Parigi, è considerato unanimemente uno dei maggiori fotografi viventi, forse il più noto e celebrato. Le sue foto in bianco e nero, i suoi ritratti drammatici di minatori e migranti, rifugiati e diseredati hanno fatto il giro del mondo, con lui e prima di lui. Ha lavorato per le maggiori agenzie fotografiche dalla Magnum alla Sygma; ha visitato oltre cento Paesi per realizzare i suoi reportage. Ma non aveva ancora realizzato nulla di simile al suo ultimo progetto.
Ebbene, dopo gli “inferni” del pianeta, ha deciso di cercarne i paradisi nascosti, ma non ancora perduti definitivamente. Forse per istinto di sopravvivenza, forse per poter riprendere in mano una macchina fotografica che le miserie e le ingiustizie del mondo, incontrate da fotoreporter, gli aveva reso insopportabilmente pesante, al punto da volerla appendere al chiodo.
Così dal 2004 s’è dedicato interamente a questo “viaggio”, per certi versi terapeutico che, come tutti i grandi viaggi, è sempre un “andare alle origini”. Un ambizioso e grandioso itinerario per i cinque continenti alla ricerca dell’Eden, cioè di quelle terre lontane in cui ancora il nostro pianeta custodisce il suo volto non contaminato dall’abbraccio mortale della tecnologia e dalla volontà di potenza dell’uomo contemporaneo; il mondo in cui ancora natura e uomo vivono in armonia. «Per scoprire – osserva il fotografo che fu amico e allievo di Henri Cartier-Bresson – che ancora il 45 per cento della terra si presenta come alle origini, totalmente vergine, ecologicamente puro come fosse allo stato primordiale. Per capire che siamo parte di un tutto, in cui l’essere umano ha una storia breve e una vita ancor più breve rispetto ai secoli di una foresta o i milioni d’anni di una montagna».
Insomma quello del grande artista brasiliano è «una lettera d’amore in immagini verso la nostra terra e, al contempo, una denuncia forte contro chi la sta distruggendo palmo a palmo». Prodotto di questo viaggio, a metà tra Odissea e Commedia dantesca, è Genesi, la mostra di oltre duecento fotografie (selezionate da oltre diecimila scatti), che ha fatto il giro dei più grandi musei del mondo.
Genesi è il primo libro della Bibbia. Che il non-credente Salgado dopo l’apocalittica condizione degli sfruttati e il doloroso esodo dei migranti, illustrati nei suoi precedenti lavori, abbia voluto stavolta esplicitamente richiamarsi alla Sacra scrittura? C’è chi ha notato che i luoghi più inaccessibili e incontaminati li ha ribattezzati non casualmente “santuari”. C’è chi, scherzando, s’è chiesto addirittura se, dopo Genesi, il grande fotografo brasiliano non si appresti a tentare un ritratto a Dio stesso. «Il nome non ha un significato direttamente religioso. Non mi sono rifatto al testo dell’antico testamento, ma ho voluto solo richiamare da subito l’idea del viaggio alle origini», taglia corto.
Tuttavia il suo agnosticismo dichiarato non gli impedisce di cogliere la dimensione quasi “religiosa” del suo progetto e la necessità di una vera e propria metanoia dello spirito per immaginare la salvezza del pianeta. «Non credo in Dio, nel Dio dei cristiani, ma casomai in un ordine generale superiore con le sue leggi».
E tantomeno crede nel mito della creazione, ma nella teoria evoluzionista darwiniana. A Darwin, anzi, s’è ispirato per l’inizio del suo progetto: ha trascorso tre mesi alle Galapagos, dove s’era recato il grande naturalista britannico, e dove portò a termine la teoria dell’evoluzione. «Mi ero portato via il suo libro, “Viaggio di un naturalista intorno al mondo” e sono sicuro che alcune tra le tartarughe che ho incontrato, le aveva viste anche lui», afferma.
«Non per questo non colgo l’urgenza di una rinascita di una dimensione contemplativa del mondo, che porti a una riflessione spirituale rispetto alle gravi responsabilità che l’uomo ha nella progressiva distruzione del pianeta in cui vive», continua il fotografo. «E in questo senso intravvedo chiaramente la potenzialità e l’autorevolezza dell’annuncio delle Chiese, quando richiamano al dovere forte della salvaguardia del creato. Papa Francesco gode di un enorme rispetto nel mondo. Lo merita per come si comporta e per quello che dice. Sono convinto che anche da qui può partire un’inversione di tendenza che rivoluzionerà le politiche economiche e le decisioni riguardanti la tutela dell’ambiente. La cristianità è una pila spirituale che potrà accendere il mondo con una carica positiva per salvare la terra. Sapere che il papa ha a cuore questo tema e genera emulazione mi dà una grande speranza».
E infine sentenzia: «La scelta decisiva, d’altra parte, non conosce terze vie: o si cambia modello economico o sarà la fine della nostra specie. Quand’ero ragazzo il 92% della popolazione brasiliana viveva in campagna. Oggi il rapporto s’è capovolto e lo stesso fenomeno accade in India, in Cina, in Indonesia. Ora, è evidente che non si può tornare tutti alle campagne. Non ci si può opporre alla tendenza che porterà in un ventennio l’80% della popolazione mondiale a vivere in megalopoli, ma se avessimo abitato nelle città rispettando l’ambiente circostante, avremmo potuto mantenere un certo equilibrio. Il dramma è che dietro di noi abbiamo lasciato solo distruzione e dissesto, assecondando le nostre folli volontà di consumo. La soluzione non consiste nel tornare indietro, ma nel tornare alla natura e all’armonico rapporto con essa».
Parole, queste di Salgado, più simili al vaticinio di un profeta, o di un guru ecologista, che all’analisi da economista, quale lui è per formazione universitaria. Ma lui ci crede e tira dritto.
Lo criticano di megalomania? Lui risponde ironicamente: «Forse. D’altra parte, sono nato in un Paese immenso». Poi, per non deludere i suoi critici, si inventa un altro progetto da vero idealista visionario. L’idea stessa di Genesi gli è venuta proprio in seguito all’avvio di “Istituto terra”, un piano in grande stile di riforestazione proprio là dove è nato, In Brasile nella terra di suo padre, nello stato di Minas Gerais, dove sta riconvertendo in foresta atlantica un’enorme area disboscata dall’urbanizzazione e l’industrializzazione senza regole. Un progetto ecologico senza eguali al mondo: con Lelia Deluiz Wanick Salgado, la donna che ha sposato quasi cinquant’anni fa e con la quale condivide lavoro e sogni, ha piantumato due milioni di alberi e che prevede nei prossimi 25 anni un investimento di un miliardo di euro, fino al recupero di un intero bacino fluviale, quello del Rio Doce e il ripristino di migliaia di sorgenti.
«Il problema non è economico, ma spirituale», commenta: «Basta capire che si deve agire subito. I denari si trovano. Bastano quelli per la costruzione e l’armamento di quattro aerei da combattimento». E lo sta dimostrando contro lo scetticismo dei suoi detrattori: le cospicue donazioni per il progetto, raccolte in tutto il mondo, stanno alimentando il sogno del fotografo.
Salgado è un po’ come quel pastore altrettanto misogino e visionario che di nome faceva Elzéard Bouffier, protagonista, realmente esistito, del delizioso racconto di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi. Anche lì il sogno divenne realtà.
Il libro, a ben pensarci, ci suggerisce anche il miglior modo di definire il fotoreporter, senza provocarne l’idiosincrasia per le etichette: semplicemente “l’uomo che piantava fotografie”.
Amichevolmente.
Alberto Laggia
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