
A questo punto, per par-condicio dovrei continuare coi parenti dalla parte di mio padre ma ho il compito facilitato dalla esiguità della ‘specie’ che, guarda il controsenso, ho frequentato poco anche se sarebbe stata quella più a portata di mano, a partire dai parenti più caldi. Ma zia Maria, che ha vissuto una lunga giovinezza da artelusa, aveva un mestiere assai duro e non aveva tempo per qualsivoglia bàgola1. Ho poi avuto l’impressione che sia lei che mio padre avessero il loro bel daffare a star dietro a Nonno Jijo2 che aveva ritualmente problemi di depressione curata autonomamente nel modo classico montanaro; e questo dal periodo del fallimento dove aveva sperperato una vera fortuna giocando e lasciandosi giocare da compagnoni poco affidabili. Tutto ciò gli ridusse la vita che si concluse quando ero ancora piccolo (avrò avuto 4-5 anni).

Mia zia Maria, segnata dalle stagioni all’aperto, si sposò dopo un fidanzamento extra-large con zio Angelo, una guardia carceraria sarda di quelle della migliore tradizione, buono come il pane ma anche lui di sovente depresso – prova tu a fare quel lavoro per una vita – e pure lui autodidatta in cure. Dio vuole che sia finalmente, dopo un felice trasferimento vicino a Pordenone – sempre che cambiar carcere possa concedere gioia, mia zia abbia dismesso frutta e verdura per cercare un poco di vita serena, specie quando Angelo arrivò alla pensione. Inutile dire che la sfiga ha i suoi preferiti. A mia zia venne un ictus, Angelo ci fece su una malattia – le voleva davvero bene, di quei beni semplici che brillano – e poi morì. Così a zia Maria le prese un altro ictus che la portò a vegetare su una sedia a rotelle, provando più assistenti e più ospedali, fino a trovare finalmente pace dopo dieci anni di schiacciamento vitale; pensi, vedi e senti e non puoi dire o fare nulla se non domandare carità solo con gli occhi. Quelle rare volte che sono andato a Maniago a trovarla ho sempre letto la stessa cosa nel suo sguardo che era una preghiera ma non rivolta al cielo.
Mi restano ora da inquadrare la Zia Checchina, la zia Virginia, la zia Ester e la zia Nives nessuna delle quali è in realtà una mia vera zia, anche se io le ho sempre chiamate così.
La zia Francesca, detta Chechina, e la zia Virginia o Vergìnia, erano sorelle della nonna Tilde ovvero le zie di mio padre (mie prozie).

La zia Vergìnia ebbe tre figlie, Maria, Renata ed Ester e i loro figli sono quelli che ho sempre considerati i miei più prossimi parenti poiché vicini per età.
Maria non la ricordo ma so che lasciò subito solo al mondo Renato che trovò un’altra madre in zia Ester (quella sì vera) che già aveva un’altra figlia, Liliana.
Il legame particolare che avevo con Renato passava anche attraverso mia zia Maria, la fruttivendola, che gli voleva un bene benissimo di cui avrei potuto perfino essere geloso se Renato non fosse stato quello che era, ovvero sempre perfettamente candido e disarmante, di una disponibilità testarda che lasciava tutti stupiti. Renato, che ho sempre stimato, ha percorso strade ogni volta molto faticose, arrivando ad avere successo nella vita e nel lavoro nonostante le periodiche coltellate che solo i buoni prendono. Non ci siamo però mai persi di vista. Mi chiamava ‘cugino’ e ogni volta che scappava a Belluno dalla Ester passava a trovare anche me e a prendersi le ultime novità in libri e canzoni. Attorno alla metà degli anni Sessanta sono stato persino suo ospite a Torino, per qualche tempo e per questioni di lavoro, e ci siamo divertiti un sacco con l’andare a vino per le colline di Alba.
Giunto alla pensione aveva scoperto le possibilità della rete e mi mandava regolarmente via e-mail le foto che, per passione, andava in giro a scattare. Poi non l’ho più sentito e neppure lo vedrò più, anche se ha voluto tornare finalmente da sua madre al cimitero di Prade. Ve l’avevo detto che era un meraviglioso testardo.
La Ester e mio padre avevano invece un rapporto particolare e privilegiato. Credo si raccontassero tutti i reciproci segreti. Nino aveva poi una particolare attenzione per Liliana, la figlia di Ester, che dietro un aspetto delicato e timido, coltivava evidentemente la dote di famiglia: la perseveranza.
Renata, ancora ebbe Rosanna, che pressappoco ha oggi la mia età e Danilo, più giovane, di cui ho perso momentaneamente le tracce.
La zia Chechina (sposata in Guerra) di figli ne ebbe invece quattro: tre maschi (Giorgio, Ezio e Aldo) e l’ultima, Nives, unica superstite della famiglia.
- Nel senso di passatempo, divertimento. ↩︎
- Altri lo chiamavano Gigeto o Jijeto. Sul nonno ho notizie aggiornate grazie alla ricerca che Giorgio Fornasier sta compiendo circa lo Stato delle Anime della Parrocchia del Duomo di Belluno dal 1715 al 1915. Vi compare un Secco Luigi Natale di Giuseppe e Bonaventura Adelaide, nato a Treviso S. Angelo il 08/08/1884, di professione fiorista; che sposò il 16/10/1911, nella Chiesa di Belluno Assunta (Cattedrale), De Bona Matilde di Giovanni e Longana Luigia nata a Belluno S. Biagio il 03/02/1883: abitavano in via Mezzaterra ed ebbero due figli: Maria Francesca nata a Belluno il 06/08/1912 e Ottorino nato a Belluno il 04/07/1915. ↩︎
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