Capitava raramente che mi trovassi da solo; andavo allora a trovare la Bruna, zia dei Manolli, che aveva il negozio di giocattoli giusto sullo spigolo del caseggiato che, sul lato verso il Duomo, riprendeva via Mezzaterra verso Porta Rugo, da Piazza delle Erbe. La Bruna era un tipo, con un sottile naso aquilino e due occhi grandi da civetta. Vestiva sempre in grembiule nero su cui spiccava un candido colletto inamidato; poi calzettoni e scarpette, da educanda attempata. Adorava mio padre e lo zio Gino; forse per questo mi lasciava più che curiosare tra i giocattoli che non rivedo sfavillare; ricordo di più gli odori di vernice, legno e polvere; la Bruna teneva solo giocattoli all’antica: casette di legno, piccoli saltimbanchi snodati, animalucci di vario genere spinti in tensione da una molla che ne raggruppava i fili degli arti su una pedana a ditale: bastava premere e il gattino sfracellava per poi ricomporsi non appena tolto il pollice dal tappo. L’unica cosa che ci proibiva veramente era portarle via i monopattini nuovi, e ne aveva ben donde, vista la nostra fama di distruttori di tutto e la via completamente fatta a cubetti di pietra, prima cogolà1, proibitiva per lei, che zoppicava un po’.

Ci fu anche il periodo dei carrettini realizzati con una tavola-sedile sotto la quale si dislocavano due assi munite, nei rispettivi estremi, da ruote, quasi sempre cuscinetti di scarto recuperati da auto o camion, fuori uso.
L’asse posteriore era fisso e quello anteriore imperniato al centro con due spaghi fissati alle estremità per poter ‘guidare’ il mezzo.
Si facevano le gare in discesa per via Mezzaterra, ma col selciato era davvero dura, sia per il baccano, che ci procurava le invettive dei ‘grandi’, che per l’altissima frequenza dei guasti ‘tecnici’ e delle rotture. Questo ci suggeriva di aspettare l’inverno per votarci alla slitta lungo la curta, da Porta Rugo a Borgo Piave: piccoli precursori del bob.

Della pescheria dei Poletto mi ricordo bene perché ci stavano le anguille vive, dentro un acquario col ghiaino chiaro sul fondo e una grande pietra porosa coperta di erba che faceva sembrare l’acqua color verde smeraldo. Quel giorno che mia madre ne comprò una, neppure molto grande, perché piaceva fritta a mio padre, la credette morta dato che l’aveva vista prelevare dall’acqua assai prima di essere andata a prendere un caffè di lusso2 con la Franca e a fare la spesa. Tornata a casa in bici l’aveva quindi presa in mano senza timore e stava per farla a tocchi quando l’animale ricominciò a dimenarsi come un ossesso; al che la Ada si mise a gridare e a saltare qua e là per evitarla, gridando ‘al serpente’ senza trovare il coraggio di avvicinarla nemmeno in seguito. Fu mio nonno a raccoglierla dal pavimento e a farla in tocchi (mentre si muoveva ancora) brontolando sulla gioventù senza nerbo. Il tutto con me divertito.

A volte mi fermavo a mangiare dalla Rolanda che di figli ne aveva quattro; Franco però era troppo vecchio e Michela piccolina; così giocavo con Vanna, mia coetanea, e con Sergio che era minuto ma vivace e scapestrato, per la qual cosa fu ribattezzato dal gruppo ‘Fagiolino’, nome che gli è rimasto attaccato per una vita (finita sfortunatamente troppo presto). Loro stavano in fondo a Santa Maria dei Battuti, poco più giù della chiesa col vecchio Hospitale3 in fronte, credo in locali ricavati nella parte già nobiliare di Palazzo Pagani. Me ne sovvengo perché per arrivare al capezzale della Vanna, che aveva preso la pleurite dopo una polmonite mal ‘interpretata’, mi ero trovato a passare per stanze inusuali che mi parevano altissime e blasonate da un pavimento, credo, in marmorin; tutte cose inusuali per il nostro ceto.
La Rolanda, che era di Parma, faceva piatti buonissimi e fuori del normale, sicché mi fermavo volentieri anche se mia madre non voleva che ‘disturbassi’ e mi preferiva a casa. Il periodo migliore era quando arrivavano i suoi parenti che ricordo caramente.
Da mia zia, che stava là vicino, mi fermavo di rado a dormire perché lei iniziava il lavoro di mattina presto e non poteva accudirmi a dovere (secondo la Ada). Credo che mi sarei potuto arrangiare anche da piccolo per andarmene a scuola. Belluno non è grande e allora lo era ancor meno; ma le madri, ah le madri!
- Si tratta di forme di selciato adatte a realizzare una pavimentazione di pietra a commessure (giunture) fitte e quindi liscia. I cubetti di porfido erano scolpiti manualmente mentre i cogolà consistevano in ciottoli di fiume scelti di grandezza uniforme che andavano a comporre una superficie più malagevole, più adatta a foderare salite e discese. ↩︎
- Nel senso che era avvenimento raro e desiderato ma inusuale; una cosa da ricchi insomma, da farsi per eccezione. ↩︎
- Il primo Hospitale risale al 1360 mentre l’Ospedale dei Battuti è datato attorno al 1520. Sarà anch’esso trasferito nel 1793 (assieme agli altri due di Santa Maria Nova e di San Biagio) in via Loreto nel nuovo Ospedale ricavato dal vecchio Seminario fatto costruire dal Vescovo Francesco Bembo ai primi del Settecento (a sua volta sorto al posto di un precedente edificio del 1568; cfr. BSA, pp. 42-45). ↩︎
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