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Padre Beltrame aveva fatto partire anche un’altra iniziativa fondando il Gruppo Scout Belluno 2 cui avevano aderito quasi tutti i giovani del quartiere in età adatta ovvero due o tre anni più vecchi di me. Oltre alla divisa che mi pareva bellissima, facevano i ‘campi’ estivi, andavano per le montagne e si raccontava meraviglie di ciò che combinavano. Avevamo la sganga anche noi di arrivare là ma non era possibile, Allora il buon Padre, ci disse della possibilità di istituire Lupetti e Coccinelle, e così fummo presto inquadrati.

Le uscite coi lupetti ci portavano sempre più lontano e si finiva perfino alla chiesuola di San Bastian a Vezzano1 e poi su, al Bosco delle castagne, che mi faceva paura dopo che qualcuno mi aveva indicato l’albero degli impiccati2.
Più avanti arrivammo fin su a Bolzano e poi a Tisoi e su fino a San Giorgio3. Quella vita di montare e smontare tende, di farsi da mangiare, di cercarsi l’acqua e di doversi arrangiare al meglio mi piaceva nonostante non amassi molto le scarpinate e poi sentivo già la responsabilità che un po’ il ‘padre’ e un po’ i compagni mi chiedevano. Per essere giovanissimo ero di fatto prudente e i miei azzardi, misurati. Ciò nonostante fui il primo dopo anni ad avventurarmi nel bosco dietro la casa del Papa e, superata Villa Clizia4, raggiungere il greto del rio per seguirlo fin quasi alla Peschiera di Fisterre, raggiunta dopo aver sorpassato il manufatto del vecchio acquedotto via pa l Pont de le fontane5. Poi la cosa divenne normale. Da Fisterre, seguendo il bordo de la roja presso le pale dei mulini si arrivava giù a San Francesco, sempre passando sotto i ponti, fino alla falegnameria dei De Luca.

Per il ritorno si poteva scegliere la più facile strada delle caserme, passando davanti alla bottega di Praloran dove a volte si andava a vendere qualche ferrovecchio, oppure seguivamo a ritroso l’acqua, fino al ponte più a monte, dove il bosco si diradava e si vedevano bene i piloni della funivia che portava i carrelli con l’argilla alla mattonaia.

Altre volte si andava a sassi e conchiglie, armati di martello o mazzetta, specialmente dietro San Bastian dove c’erano rocce e grossi sassi di arenaria grigia, incisi dall’acqua del torrente Vezzan, che abbastanza facilmente si rompevano in scaglie perfette evidenziando vuoi forme di conchiglie, ma anche sezioni di foglie, pesci, denti, ogni volta sorprendenti anche se non valorizzati da valutazioni scientifiche.
Più avanti con gli anni, da scout, si arrivava anche alle cave di pietra molare di Bolzano e agli enormi antri che le caratterizzavano, lunghi chilometri6, ci dicevano7, da tanti erano i secoli che venivano scavate8 (pure esse ricche di fossili) dai cavatori9.
Le mole finite, pronte per affilare armi bianche e strumenti appuntiti e da taglio, potevamo però andare a vederle e a toccarle di fronte alla Caserma Salsa dove a finire il sasso c’erano gli operai di Sior Bepi Fant10, padre di Sergio e Renzo, compagni di avventure.
Reclute silenziose

Il confine tra città e campagna era poco più in giù, oltre la ferrovia che, quanto a strada, corrispondeva alla località ‘la Cerva’, sotto la quale passava la galleria del treno pronto ad imboccare il viadotto sull’Ardo e dove c’era l’ingresso custodito per villa Morassuti. Le caserme, già esistenti da qualche anno, non erano considerate ‘centro’ e neppure l’area ‘industriale’, troppo recente. Così pure, anche le moltissime reclute non sembravano cittadini reali se non ai proprietari dei bar vicini e delle botteghe che vendevano souvenir, specie la Cola che nella botteghetta della Cerva, dove si trovavano mostrine, stellette, e qualsiasi altro orpello da divisa, aveva proprio ‘di tutto’. Probabilmente per ordini ‘superiori’ i militari erano sconsigliati dal frequentare campedel e liston e in genere le aree centrali.

I percorsi delle libere uscite si indirizzavano verso le periferie, in area stazione o sbrigativamente verso i cinema (altrimenti come giustificare la loro numerosità in relazione alla sola popolazione locale), con preferenza al ‘Dolomiti’, per il prezzo particolarmente favorevole (oltre il normale sconto stabilito per i militari) e per la scelta ‘artistica’ della proprietà di proiettare film a luci ‘rosse’ che, dalla metà degli anni Cinquanta, cominciavano a prendere piede più che per le immagini contenute, per i titoli provocatori, evocatori di colossali porcate sostanzialmente inesistenti.

Il ‘Pedoceto’11 comunque, era pieno in tutte le ore giornaliere di proiezione e, nonostante fosse ben riscaldato, molti frequentatori si premunivano di impermeabili e paltò.
- In realtà Santi Giorgio e Sebastiano. Il piccolo e grazioso attuale edificio risale al sec. XVII ma l’origine è precedente (cfr. BSA, pp. 292-294). ↩︎
- Nella primavera del 1945, quasi alla fine del conflitto mondiale, e forse proprio per questo, si moltiplicano le azioni della resistenza locale contro i tedeschi e di conseguenza aumenta la loro rappresaglia. Il 10 marzo nel Bosco delle castagne sono impiccati 10 partigiani. Altri 4 vengono appesi ai lampioni di piazza Campedel il 17 marzo e la piazza porta oggi il nome di ‘piazza dei Martiri’ in memoria del triste episodio. ↩︎
- La chiesetta di San Giorgio (m. 1355) è oggi situata nel territorio del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, a nord del capoluogo. Si raggiunge da Tisoi con una buona scarpinata, specie se fatta da ragazzini. Il piccolo luogo sacro fu eretto nel 1500 dagli abitanti di Tisoi e Libano, i quali fin lì salivano nel mese di maggio per invocare l’acqua dopo l’aratura dei campi. ↩︎
- Antonella Costa – Giardini nella Provincia di Belluno IBRSC serie Arte n.13, BL 2002, pp. 142-143.
…La figura dell’ingegnere Giorgio Pagani Cesa, pioniere degli esordi del giardino pubblico, è legata anche alla creazione di un eden privato: il parco della villa di Mussoi alla periferia di Belluno, a quel tempo isolata nella campagna… Il primitivo accesso era un tempo laterale, da sud-est, ed è tuttora riconoscibile l’ingresso con i pilastri recanti la scritta ‘Villa Clizia’… Un vialetto d’accesso laterale è posto lungo la strada per Bolzano Bellunese, costeggiato da spalliere di carpino [143] potate un tempo con terminazioni a sfera.[…] Al tempo si parlò della trasformazione di ‘un brullo fondo in un elegante e poetico recesso’ e, vista l’eccezionalità del luogo, i proprietari concessero di visitare il parco a chi ne facesse richiesta…
↩︎ - Il presente ponte fu completato nel 1555 ma il tragitto sembra ricalcare un precedente manufatto addirittura romano, che senz’altro portava parecchia acqua in città, derivata dall’Ardo. ↩︎
- Le buse delle mòle erano dislocate nella zona tra Libàno, Tisòi e Bolzano Bellunese (in comune di Sedico la prima e di Belluno le altre due). La coltivazione, di tali giacimenti nelle località di Valdantre (lett. ‘valle degli antri’, dove c’erano le cave più antiche), Costalunga, Narda, Bez, Collungo (Corlonch, a Le Càlunighe), in comune di Belluno, e i Cònch, in comune di Sedico, si può collocare in tempi assai antichi, basandosi sulla lunghezza delle gallerie scavate con sistemi manuali fin verso il 1942. Un tempo le Buse appartenevano ai proprietari dei terreni soprastanti e si identificavano dal nome, o soprannome, delle famiglie titolari; così c’erano quelli dei Poi (Da Rold), dei Roldi, dei Tinàgre, dei Thérvo (Cervo), dei Tieda (Rosso), dei Borghèi (Da Rold), dei Luchèt, dei Funés, dei Giozèt, dei Botèr (Dell’Agostìn), degli Archìs, dei Càndaten, ecc. Una era poi detta la ‘Descuèrta’ perché a cielo aperto. Se nelle rappresentazioni iconografiche dei secoli passati compaiono mole ad acqua che servivano ad affilare le armi bianche, possiamo ragionevolmente sostenere che provenissero dalle località già citate; erano famose ed esportate ovunque essendo ritenute della migliore qualità – www.bolzanobellunese.com/bolzano-e–i-molas. ↩︎
- Ed è vero! L’ho potuto direttamente verificare in una recente visita alla fungaia Menin che è ospitata in alcuni bracci delle cave di Tisoi più periferiche, confortate da temperatura e umidità praticamente costanti, adatte quindi alla nuova attività (coltivazione di Prataioli e Pleurotus, oggi anche di altre specie). Lo sfruttamento delle cave è millenario e sembra che già i romani ben valutassero la pietra molare locale la cui lavorazione e trasporto in ogni angolo del mondo compare in molti documenti di tutte le epoche successive. ↩︎
- Sono riuscito a vedere una ‘cavata’ solo nei recenti anni Novanta, fatta apposta per me per poter filmare il metodo usato. Il blocco da estrarre è ricavato dalla massa seguendo la vena della pietra la quale viene liberata incidendola sotto e al lati. Il diedro superiore del masso è di solito già a vista e il cavatore sceglie la linea dove inizia a piantare appena, di punta, una serie di piccoli cunei di ferro che inizia quindi a percuotere, uno per uno, in modo da creare una pressione sul punto di penetrazione che si propaga così alla linea di taglio che diventa critica. L’esperto presagisce lo stato di avanzamento della fessurazione ascoltando il suono del sasso quando i cunei vengono colpiti e riesce a presagire in modo abbastanza esatto il momento del distacco del masso. ↩︎
- Ciascun cavatore era in società con 3-4 molàs che lavoravano “a metà” con lui; in pratica, poiché egli procurava loro la materia prima, aveva diritto alla metà di quanto si ricavava dalla vendita del prodotto finito, mentre i suoi soci, addetti a costruire le mole all’esterno, si dividevano l’altra metà. Probabilmente, con questo migliore trattamento, si compensava la maggiore pericolosità del lavoro e il rischio di contrarre più facilmente la pussiéra (silicosi) da parte di chi svolgeva la sua attività all’interno delle cave. Ogni molàs aveva i suoi attrezzi, i più importanti dei quali erano il mai, la maiòla, e la patirlòca, simili a picconi anche se più piccoli, la mazìa (sorta di martello), il zérzen (compasso), i conci (cunei). ↩︎
- Era l’erede di Fant Giacomo che aveva avuto la concessione delle cave di Bolzano Bellunese tra il 1934 e il 1936 (cfr. Le cave di pietre molari di Bolzano Bellunese in Opere nel tempo, Nuove Edizioni Dolomiti, 1991, pp. 106-108). L’azienda Fant, che aveva il marchio dell’elefante su 3 mole, chiuse i battenti verso gli anni Sessanta e Sior Bepi finì la propria carriera alla direzione della Tipografia Piave. ↩︎
- Pidocchietto, in quanto, costando poco, consentiva di risparmiare. ↩︎
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1 commento
Brunveda
Un incredibile ed interessante scorcio della nostra storia, sconosciuta ai più.
Grazie per questo bellissimo articolo !