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venerdì 5 Dicembre 2025,

150 anni per il “povero marmo” di Calvi

La tribolata storia di un monumento in memoria dell’eroe e di tutti i caduti del 1848

Era stanco e nervoso Giosuè Carducci allorché, sotto una pioggia fastidiosa, scese dalla diligenza nella piazza di Pieve e forse neanche notò quel monumento alla base della torre del Palazzo della Magnifica. Era il pomeriggio del 31 luglio 1892 e il poeta Vate della III Italia, vestito di tela chiara e con il panama in testa, aveva fretta di entrare all’albergo “Progresso”per ristorarsi e riposare dopo cinque ore di viaggio disastroso, da Belluno alla capitale del Cadore.

La sua venuta era dovuta a un programma preciso e deliberato da tempo: s’avvicinava il 20 settembre, anniversario della Breccia di Porta Pia, e il Nostro, riconosciuto ormai come il lirico più originale della letteratura italiana contemporanea, aveva intenzione di regalare agli italiani, come ormai da tradizione, un’ode patriottica e per così dire apostolica, volta a risvegliare gli ideali risorgimentali, a suo vedere sopiti se non traditi dall’Italietta giolittiana. Il suo obiettivo era celebrare Tiziano, visto come esempio di genio italiano, capace di sedurre e incantare perfino Carlo V, il fiammingo principe che non si era vergognato di chinarsi davanti a lui per raccogliergli il pennello caduto a terra.

Dopo qualche difficoltà iniziale, gli erano state assegnate due camere al II piano: da una di esse poteva ammirare la statua di Tiziano in piazza, dall’altra, adattata a studio, osservare quello che poi avrebbe definito “povero marmo”, il monumento a Calvi. E fu un vero colpo di fulmine, scoccato inesorabile in quella piazza che gli rivelava antichi bagliori di civiltà comunale e di arte rinascimentale. Il 1° agosto prese alla chetichella una sedia dal corridoio d’entrata dell’albergo e andò a sedersi di fianco alla ringhiera del monumento a Tiziano. E proprio mentre cercava l’anima di Tiziano diffusa tra i paterni monti, ecco il richiamo irresistibile di quel “baldo viso di giovine disfidante”, immortalato nel marmo da Valentino Panciera Besarel. Così l’anima eroica di Pietro Calvi si sovrappose al genio di Tiziano divenendo il vero filo conduttore dell’intera ode barbara di 164 versi, un’autentica “rapina” della sua anima per farla volare aralda del nostro futuro su tutta la penisola.

Quello che oggi noi vediamo non è però il monumento a Calvi che vide Carducci, giacché nel 1917 gli austriaci lo distrussero, come fecero del resto anche per la statua dell’eroe, opera di Urbano Nono, inaugurata nel 1909 su Col Contras. Lo videro però nella versione originale le migliaia di soldati italiani che nel corso della Grande Guerra transitarono per Pieve, per raggiungere il fronte o per ritirarsi da esso dopo Caporetto. Ma non c’era solo il monumento. Racconta Edoardo Ximenes in La nostra guerra nel Cadore (in Emporium, n. 254, febbraio 1916) di aver visto sotto la statua di Tiziano, addossata al plinto, retta provvisoriamente con delle funi, una grande lastra di marmo con il testamento di Calvi, portata lì dai cittadini di Pieve il 24 maggio 1915, dopo averla tratta dalle cantine del Comune in cui da tempo era stata collocata per riguardo all’alleata Austria. I nostri soldati di passaggio a Pieve – aggiungeva Ximenes – vi si avvicinavano riverenti e volgendo poi i passi alla volta delle cime nevose portavano in petto un tacito giuramento. Si trattava della lapide che il 10 settembre 1905, nel 50° della morte di Calvi, era stata murata nel salone del Palazzo della Comunità.

Tornando al povero marmo che Carducci e Ximenes videro sotto la torre della Magnifica, esso era opera di Valentino Panciera Besarel, che, assieme al suo allievo Giambattista De Lotto, aveva realizzato un grande triangolo a mo’ di piramide di pietra bianca, poggiante su di uno zoccolo sostenuto da tre gradini innalzati su un basamento di pietra rossiccia di Castellavazzo. Al centro del triangolo spiccava il busto in marmo di Calvi a bassorilievo, con intorno gli stemmi del Cadore, di Agordo e di Zoldo, uniti in lega nell’epopea del 1848. Sotto il medaglione c’era un trofeo d’armi ornato da tre corone intrecciate, di quercia, d’alloro e di olivo, simboleggianti rispettivamente la forza, l’onore e la pace, e da un nastro recante l’iscrizione “Più che l’armi vinsero concordia, costanza, fede”. Nel mezzo dello zoccolo figurava la scritta: “A Pietro Fortunato Calvi e ai morticombattendo con lui per la patria indipendenza nel 1848”, con ai lati i nomi dei Caduti, di cui 15 cadorini e uno zoldano.

Il monumento venne inaugurato il 14 agosto 1875 nell’anniversario del combattimento di Tre Ponti (14 agosto 1866). Sui gradini, ai lati dello zoccolo, posavano due leoni di pietra d’Istria, uno alato, con il capo alzato e fiero, e l’altro con il capo mestamente appoggiato a terra, a piangere i prodi caduti.

Distrutto dagli austriaci nel 1917, fu rifatto a cura del Segretariato Ligure delle Opere Federate di Assistenza e Propaganda Nazionale e inaugurato il 31 ottobre 1920. È opera di Annibale De Lotto (1877-1932), figlio di quel Gianbattista che aveva collaborato con il Besarel nel precedente monumento.

Nel 2021 il monumento e la sua travagliata storia sono stati oggetto di un’approfondita indagine storica e artistica nell’ambito del progetto “La promozione della cultura tramite studio e valorizzazione dell’archivio Besarel”, coordinato dalla Fondazione G. Angelini in collaborazione con la Magnifica Comunità di Cadore (referente Matteo Da Deppo) e con la supervisione scientifica della dottoressa Anna Maria Spiazzi.

Walter Musizza

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