Quattro anni orsono, quando a Sofia Goggia venne affidato il ruolo, tanto impegnativo quanto ambito, di Ambassador dei Mondiali di Cortina 2021, si vide in ciò la volontà di promuovere lo sci italiano in chiave anzitutto femminile, scelta che assumeva un profondo significato civile e culturale.
A questo proposito però non si può dimenticare che già 65 anni prima un’altra donna aveva avuto un incarico simile, ma ben più rilevante, in una Cortina incorniciata dai cinque cerchi olimpici.
Intendo parlare di Giuliana Minuzzo, colei che più ci rappresentò in quei Giochi di 69 anni fa, la sciatrice che non solo incarnò le nostre speranze di una medaglia nello sci alpino per le sue oggettive capacità, ma che divenne anche l’immagine migliore di un’Italia che voleva mostrare al mondo i suoi progressi sociali e sportivi, a cominciare dall’emancipazione della donna in ogni campo e disciplina. Fu la prima donna nella storia delle Olimpiadi (sia estive che invernali) a essere scelta per pronunciare il giuramento olimpico a nome di tutti gli atleti partecipanti e al cospetto del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Su questo stesso giornale nel 2019, nella trepida attesa dell’assegnazione dei giochi 2026 a Cortina avvenuta a Losanna il 24 giugno di quell’anno da parte del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), il sottoscritto così scriveva: «Nel caso Cortina divenisse una sede dei Giochi del 2026, sarebbe bello che questa ultraottantenne (ovvero la Minuzzo) ancora oggi in gran forma, venisse invitata a ricordare eventi, personaggi e atmosfere di quella magica edizione di 63 anni fa. Sarebbe una lezione ideale di vita e di storia, un’occasione preziosa per confrontare passato e presente, per capire cosa conservare e cosa innovare, nell’organizzazione dei Giochi, nello sport in generale e naturalmente nell’immagine di Cortina che vogliamo proporre al mondo intero».
Siffatto auspicio, al di là del fatto che fosse realistico o no, si è purtroppo volatilizzato con la scomparsa della campionessa, intervenuta ad Aosta l’11 novembre 2020, sulla soglia degli 89 anni di vita. Rimangono comunque intatti tutti i valori che questa donna ha saputo incarnare nella storia dello sport e ancor più nell’emancipazione femminile del nostro Paese: una pagina che è giusto rievocare in prossimità ormai del fatidico traguardo dei nuovi giochi.
Oggi tante nostre atlete gareggiano e spesso vincono in tante competizioni internazionali, ma negli anni Cinquanta del secolo scorso l’Italia rosa non brillava certo nello sport in generale e la Minuzzo impersonava al meglio i progressi in atto e ancor più le aspettative future. Era insomma un esempio e uno stimolo per ogni donna che praticasse attività agonistica, qualunque essa fosse.
Nata a Marostica il 26 novembre 1931, di corporatura minuta, gentile di modi e d’aspetto, nascondeva una forza e una tenacia sorprendenti e si presentava come la prima italiana in grado di fregiarsi di una medaglia olimpica invernale. Nel 1951, dopo un brutto infortunio, si era laureata campionessa italiana in discesa, ottenendo l’anno dopo la consacrazione ufficiale con la medaglia di bronzo nella stessa specialità alle Olimpiadi di Oslo.
A Cortina dunque molte speranze erano accentrate su di lei, ma il quarto posto, sia in libera che nello slalom speciale, pur prestigioso, la relegarono ai piedi del podio. In verità con la sua versatilità una medaglia di bronzo riuscì a conquistarla nella combinata, gara però valida solo ai fini dei Mondiali 1956, non per le Olimpiadi. E che la medaglia di Oslo non fosse stata una meteora, resta dimostrato dal fatto che ai Giochi di Squaw Valley del 1960 colse il bronzo nello slalom gigante, continuando poi a gareggiare fino al 1963, anno in cui vinse il suo nono titolo italiano, nello slalom speciale. Sposata con Francesco Cesare Chenal, ebbe due figlie, Donatella e Silvana.
In quel fatidico 26 gennaio 1956, giurando a nome di tutti gli atleti partecipanti di fronte a tante autorità, riuscì a vincere l’emozione, dimostrando la stessa determinazione che la caratterizzava in gara. «Non ho mai letto il foglio – ricordava con orgoglio – di fronte alle autorità perché si accartocciò per il freddo quando lo appoggiai sul leggio, fortunatamente lo avevo letto più volte nella notte e conoscevo bene cosa c’era scritto, così lo recitai a memoria».
Oltre a ciò, per esigenze televisive, fu costretta a pronunciare la formula rituale due volte, in quanto i tecnici RAI, durante quelle riprese che costituivano un’assoluta novità per i Giochi, avrebbero chiesto e ottenuto di rifare il giuramento per riprenderlo in primo piano.
Cinquant’anni anni dopo, nel 2006, Giuliana fu di nuovo protagonista nella cerimonia di apertura dei XX Giochi olimpici invernali di Torino, reggendo la bandiera olimpica su cui giurarono Giorgio Rocca a nome degli atleti e Fabio Bianchetti a nome dei giudici. Per i suoi meriti fu nominata nel 2012 Chevalier de l’Autonomie in Val d’Aosta e nel 2014 ricevette la targa della Hall of Fame FISI e il Premio Panhatlon, destinato a personaggi distintisi in una specifica attività sportiva.
Per capire quanto diversa fosse la pratica dello sport ottant’anni fa ecco un’ultima perla: Giuliana fu la prima donna ad avanzare dei “diritti femminili” presso la Federazione e a instaurare con essa un rapporto conflittuale per aver chiesto un aiuto economico per pagare la baby sitter che accudiva le due figlie mentre lei si allenava per le Olimpiadi di Squaw Valley. Ciò le valse l’accusa di professionismo e la minaccia che se non fosse andata sul podio avrebbe dovuto pagarsi il viaggio di ritorno a casa! Altri tempi davvero.
Walter Musizza
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1 commento
Giuseppe
Ecco un fenomeno che va a rilento! Dopo settant’anni c’è ancora moltissima strada da fare per raggiungere la parità e la direzione non è sempre quella giusta: per emanciparsi il genere femminile vorrebbe non mettere più al mondo figli, vorrebbe non lavorare se non fuori casa, vorrebbe non… Ma la parità consiste solo nel desiderare di essere e fare come il genere maschile o c’è dell’altro?