Fener, anni Sessanta
La seconda fase fenerotta fu quella dei primi anni Sessanta corrispondente a quella delle 5 classi superiori ovvero dai 14 anni in su. Fu l’età delle bisbocce e dei primi amori rinnovati di anno in anno in corrispondenza dell’arrivo delle ragazze. Per quanto possa sembrare strano, Alano, Fener, Colmirano, Quero, perfino Segusino, erano posti ‘turistici’. Ci arrivavano specie i Veneziani e i pianurotti in genere che consideravano le prime coste prealpine già luoghi di montagna.
Non si spiega altrimenti la sopravvivenza di due alberghi in un paesino tanto piccolo; poi c’erano i villeggianti parenti, ossia figli e nipoti di gente partita dal paese per lavoro.
Quando parlo di villeggianti, faccio riferimento a quelli che avevano circa la nostra età e che in genere erano fedeli al luogo di vacanza. Così, ogni anno ci aspettavamo e rincontravamo con l’ansia di vedere l’effetto deriva dei nostri personali eventi e dei nostri sentimenti al confronto di dove li avevamo lasciati.
Il primo anno (io ero sui 14) feci la corte a Paola[1] che era una ragazzina dagli occhi grandi ed un sorriso smagliante; molto ‘ciompa’ come me al contrario della madre, una signora corpulenta ed espansiva che sembrava dominare in ogni momento la situazione compresi i nostri sguardi che cercavano di parlarsi. Era gentile e premurosa, anche sollecita e generosa ma inesorabilmente appiccicata. Andai persino a trovarle al Lido di Venezia dove abitavano.
Il secondo anno ritentai con Paola ma la madre era sempre più asfissiante; mi piaceva anche Bice[2] che veniva da Mestre ma vedevo che l’altro Gianni la guardava dolce e lasciai perdere.

L’anno successivo puntai decisamente su Bice dato che il mio omonimo se n’era stufato. Non mi sembrava dicesse di no, ma neppure di sì. A togliermi dai dubbi arrivò allora la più splendida delle creature che si chiamava Nerina[3]: fine ma provocante, con la carnagione chiara e qualche efelide e le fossette sulle guance quando sorrideva. Aveva un anno più di me e mi fece liquefare in un attimo. Tanto mi prodigai a corteggiarla con ogni possibile risorsa che ottenni la sua attenzione. A Fener ci era venuta con la madre per far prendere le arie buone all’ultimo fratellino Giorgio, nato dopo un intervallo notevole dall’ultima sorella, Francesca. Anche stavolta ero legato al carro materno ma la Signora non era intrigante e mi prese anzi in simpatia. Passai un paio di mesi da cavalier servente dietro una carrozzina, cotto e languido come non mai, e mi si straziò lo stomaco quando se ne tornarono a Castelfranco dopo il mio primo e unico bacio a lei sulla punta delle labbra.
Un vero amore si misura a chilometri

Ah, le pene d’amore. Che ne sapevo io di ormoni in tempesta e del loro effetto! Non riuscivo a star quieto; le parole per lettera non bastavano e nemmeno a me le poesie che le inviavo; di più, di più, e ancora la paura di perderla! Cominciai a prendere il treno per Castelfranco una volta al mese e marinavamo la scuola con la copertura di Silvana[4], sua amica del cuore. Poche ore cercando di evitare di esporci troppo, meglio a casa se i suoi non c’erano. Senza auto, senza comodità, con niente in tasca, l’amore era davvero difficile e la sua grandezza di misurava a chilometri. Il mio ne valeva 180. Non so ancora se tanto o poco ma non bastò e dalla bassa mi giunsero segnali di condivisione sempre più rari.
L’anno successivo Neri tornò e divampò l’amore: si vedeva che eravamo fatti l’uno per l’altra… almeno per l’estate!
Thomas e la zattera (1960)
Il fatto più eclatante dell’estate del ‘60 fu però l’attesa e l’arrivo di Thomas Pellegrini che aveva deciso di costruire una zattera e di fluitare con essa sulla Piave da Belluno alle crode di Fener. Thomas, tra i giovani bellunesi, godeva già una certa fama artistico-sportiva. Si cimentava col dialetto e scriveva poesie come d’altronde avevo cominciato a fare anch’io ripensando a quel ‘El scherzo de la luna[5]’ ascoltata da Ugo Neri qualche anno prima a teatro.
Inoltre faceva parte degli animatori dei Gruppi dell’Azione Cattolica che a Palus di San Marco avevano iniziato a fare i loro ‘campus’ estivi[6]. Il giornale locale contribuì a dar peso all’impresa che voleva riallacciarsi alla millenaria storia dei dendrofori di questo fiume.

Thomas, dopo aver affrontato diversi imprevisti, riuscì finalmente a coronare la sua impresa.
Il 9 agosto 1960 il natante apparve dalla curva di Quero e tra le grida della gente accorsa sul greto del fiume, atterrò finalmente sulle grave proprio davanti al loghét basso del nonno. Ci fu una grande festa in loco; poi tutto si concluse con l’ennesima fatica di trasportare la zattera alla stazione di Alano-Fener-Valdobbiadene per predisporre un carico di rientro a Belluno.
Una nottambula Prinz color azzurro (1960-1965)
Beppino era il massimo punto di riferimento della nostra compagnia, e non perché fosse il più ‘vecchio’. Piccolo di statura, diventava grande al ballo dove la sua agilità e dinamicità trovavano finalmente adeguata espressione. Con la sua Prinz mille color azzurro, una delle prime della serie, arrivavamo assai più distante e si potevano fare nella, stessa sera, capatine negli altri locali di zona.
Il più ‘equivoco’ era Alle sorgenti, ad Alano di Piave, ai piedi della Monfenera, dove si chiacchierava molto sulle tendenze di qualche personaggio locale che oggi farebbe moda. Personalmente non ho mai notato nulla nonostante l’attenzione prestata; forse i misteri cavalcavano sul ‘lungo’ tratto al buio da percorrere sullo sterrato e tra le fonde per arrivare alla meta (che oggi pare alla portata di Alano). Talvolta vi suonavano anche orchestrine dal vivo e si ballava da matti. Per scivolare meglio c’era chi continuamente spargeva borotalco sulla pista e, se andavano alla grande i nuovi balli, dal rock al twist al cha cha cha, occorre dire che dopo una cert’ora tornavano il tango e il valzer e perfino il samba – dopo la canonica ora dei lenti.
Ndr
I lenti erano ballabili in molti modi: lenti, lentissimi, praticamente fermi: era una questione di taglio dei tempi nel praticare le movenze. Nel primo, anche se poco, si muovevano ambo i piedi; nel secondo ci si imperniava su una sola gamba rotando a frazioni di giro; il terzo prevedeva solo il movimento delle ginocchia e una torsione alternata del tronco. Del ‘guancia a guancia’ non parliamo giacché normale per le coppie affiatate, in quelle in via di decisione, la ragazza anteponeva un avambraccio che valeva una barriera. Resta da dire che l’uso delle braccia della controparte era teso a serrare, nei combattenti, e invece scivolava qua e là con indifferenza nei fiduciosi di sé o sicuri vittoriosi.

Si ballava anche alla pista dell’Albergo Tegorzo, la più signorile, all’aperto; l’età media dei ballerini, sui trenta-quaranta, ci sconsigliava lunghe permanenze.
A Segusino la pista era stretta e lunga e le luci, soffuse, di colore rosso.
Di solito era l’ultimo dei locali ad essere visitato e pativa la nostra stanchezza. Per fortuna sulla via del ritorno ci rimaneva l’Osteria del Ponte dove chi voleva poteva ballare anche da solo.

Ricordo un amico spagnolo che, mentre col Bepin cantavamo a squarciagola il ritornello del porompompèro, ci diede un saggio di vero flamenco interrotto purtroppo da una piroetta con effetto idraulico da eccesso vinoso. Per fortuna, tornati di qua del Ponte riuscimmo a farci una doccia, vestiti, nel cortile adiacente alla casa del custode della diga, che era proprio Bepin il quale, nella officina al seminterrato in cui si dilettava a fare il battiferro – era straordinario anche in quello – ci fece un caffè forte ovvio e corretto grappa.
Poi ci dileguammo, come ogni notte.
[1] Paola Raccanelli.
[2] Beatrice Taboga.
[3] Nerina Marin.
[4] Silvana Zuin: l’ho trovata per caso su Facebook e si ricordava tutto, tanto che aveva conservato, tra le sue, queste foto!
[5] La poesia risultò vincitrice del primo premio al concorso nazionale di poesia dialettale ‘Città di Treviglio’ 1955.
[6] Dove anche qualcuno di Mussoi cominciava ad andare dopo che Padre Beltrame aveva subito un altro trasferimento, stavolta definitivo.
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