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venerdì 5 Dicembre 2025,

32. A scuola di twist, con il juke-box

«Il futuro è già passato ovvero mi, Belun, i Belumat e le bele compagnie». 32a puntata

Tutte le puntate

Juke-box (1960-1965)

Fu l’arrivo del juke-box a trasformare un tranquillo alberghetto di paese nel punto strategico di convergenza di tutta la gioventù locale (dintorni compresi); così ogni sera si ballava, si sognava, si beveva e si cantava sulla pista da ballo alla terrazza del ‘Marangoni’, che dava sul versante est del paese e da cui si ‘dominava’ tutto Basso Fener [che stava una ventina di metri sotto, verso il Tegorzo]. La fitta copertura vegetale che la distingueva si faceva folta per luglio e agosto tanto che anche la pioggia faticava a penetrarla; tavolini tondi attorno, con le proprie sedie di legno ripiegabili, e sull’angolo, presso il muro maestro dell’Albergo, il fantastico macchinario zeppo di dischi e pieno di tasti colorati; mi sembra, inflazione compresa, che a metà decennio si dovessero infilare cento lire nell’apposita fessura per tre scelte. F7 – E9 – H32 erano tra i miei preferiti e pronunciando queste sigle si cercava il consenso di chi stava per mettere l’obolo nella fessurina. Soldi ne viaggiavano pochi, specie tra i più giovani ed era giocoforza affidarsi al buon cuore di qualcuno di più anziano che viaggiava già accompagnato con la morosa, insomma ventenni, trentenni al massimo.

Poi, per fortuna, c’erano le madri delle villeggianti.

Io e Silvana impariamo il twist.

Noi, il mangiadischi e la chitarra

Per aumentare le probabilità di successo con le ragazze, il saper suonare ‘si fa per dire’ la chitarra, si diceva fosse fondamentale. Per sperimentazione diretta il solo dato certo è che se sai anche appena strimpellare gli altri ballano mentre tu fai la figura che ti meriti. Ciò detto, dopo il banjo, siccome la cosa mi piaceva e la moda andava salendo, anch’io mi ero impegnato, tra inverno e primavera, a trovare un buon maestro che mi desse le istruzioni. Quelli più ganzi della categoria ‘pochi anni sopra’, di noi erano Giorgio Ghè e Franco Sciutteri, l’uno più romantico, l’altro più swing, che dedicavano volentieri un po’ di tempo ad insegnarti a tenere tra le dita il plettro, che noi chiamavamo volgarmente ‘penéta’ e come e quanti su e giù bisognava fare per una beguine, un tango, un rock. Approfittai di entrambi, assai poco, e soprattutto disegnai foglietti con corde, dita e posizioni da sperimentare da solo per ore. Fortuna vuole che con Do, La minore, Re minore e Sol settima si accompagnassero un sacco di canzoni, per cui il gioco valeva la candela nonostante i polpastrelli, alla sera, dolessero segnati dalle corde. L’accesso al barrè ben eseguito mi parve una patente da musicista ma non mi facevo illusioni.

Il mio cavallo di battaglia fu, quell’anno, Oh Carol di Neil Sedaka, soprattutto nella versione Fener-country che gli diedi cambiandone le parole col nostro slang dialettale: Grisini con i perseghéti ecc. ecc. Fu il best seller alle crode dell’estate 1960 e per apprezzarlo arrivavano anche dalle crode vicino e dalle ‘grave’ circostanti. Probabilmente già da questo si poteva intuire il mio istinto di paroliere che presto trovò sfogo in una versione hard di Tom Dooley che ebbe altrettanto successo. Per fortuna a darmi il cambio, già da un paio d’anni, era arrivato il giradischi portatile, presto evoluto in ‘mangiadischi’ giacché il 45 giri veniva di fatto risucchiato da una molla prima di partire.

Dischi ne avevamo abbastanza; ognuno portava i suoi e ce n’erano di più gusti e per ogni occasione.

Romantici, non nell’ordine di uscita: Io che amo solo te di Endrigo; E più ti amo – Alaine Barriere Legata a un granello di sabbia – Nico Fidenco (quella del ti voglio cullare cullare che, più che alla categoria tradotte, passò presto a quelle pornotravisate); Nata per me di Celentano e poi Paoli, Morandi, Donaggio e Smile e Hurt di Timi Yuro (altro che Leali!) e Pat Boon e la banda francese con Aznavour, Jonny Holliday e Francois Hardy: e Adamo, dove lo mettiamo Adamo e la sua La notte? Per il rock si spaziava dal Lonely blue boy di Connay Twitty e Jonny be good, a Cocinella passando per tutto Little Richard e ovviamente Elvis.

La musica da compagnia vedeva il trionfo di Neil Sedaka e Paul Anka, su tutti, insidiati da Harry Belafonte e dalle nuove leve come Conny Francis, una Madonna ante litteram, Gene Pitney e Johnny Holiday, ma sorprendentemente anche dalle promesse del rock nostrano, Equipe 84 e Camaleonti in testa.

Di qua e di là del Piave

Il paese era piccolo e ciò nonostante di locali per ‘perdersi’ ce n’erano. L’Osteria con cucina ‘alle sbarre’, così detta perché affiancava il passaggio a livello utile per prendere la strada del ponte per Valdobbiadene e Segusino era per lo più bona da ombre e bona da veci, insomma era frequentata più che altro da bevitori e giocatori di carte e di bocce, gente in transito che aspettava il treno (almeno fino all’apertura del buffet della vicina stazione), da pescatori che tentavano la fortuna col fiume o da gente col campetto della salute sulle grave poco oltre. Passato il ponte di ferro, c’era l’Osteria corrispondente di sinistra Piave, incastrata nella roccia viva, solinga e isolata, ideale per gentaccia e giovani banditi notturni come eravamo noi in quegli anni.

Gestita senza apparente limite d’orario, era visitata da mezzanotte all’alba ed era lì che si finiva la sbornia e tutta l’energia. Il ritorno per il ponte era fase cruciale del ciclo perché obbligava ad una lunga passeggiata dentro un vento gelido in grado di sospendere, almeno provvisoriamente, gli effetti dell’alcol. Non una luce che non fosse cielo e luna; il rumore netto dell’acqua esaltato dalla necessità di concentrarsi sui passi incerti; la bava d’aria continua sulla fronte e sul collo … tornati alle sbarre, ognuno prendeva la direzione di casa e dell’ennesimo rischio.

Repliche di fughe notturne

1963. G & G in luglio a Fener.

Mia nonna, sul letto di morte, non mi ha creduto quando ho cercato di distrarla dal suo ultimo impegno scherzando sulle bravate giovanili che io e Gianni Bogo facevamo nelle estati di Fener; e si che ne erano passati ormai degli anni! D’altronde come pretendere che due giovanotti se ne tornassero a casa quieti quieti alle dieci di sera quando la vita notturna stava ancora lì lì per scoppiare. La nostra tattica era questa: tornare per tempo, salutare, salire due giri di scale a scalini di legno fitti; arrivare in soffitta dove c’erano le nostre brande; spogliarsi, aspettare, vegliare in attesa di potersi auspicare che il sonno avesse colto i nonni; quindi calare i nostri vestiti dalla finestra appesi a un cordino, per poi scivolar giù, uno alla volta, lungo le scale, a piedi allargati su ogni scalino per limitare-evitare-attutire il rumore vecchio del legno. Aprire la porta, slegare il malloppo, richiuderla a chiave e svelti sparire nel buio del portico di fronte; rivestire, sistemare, respirare a fondo e partire per una meravigliosa nuova nottata.

Si tornava spesso con l’alba alle calcagna usando precisamente il metodo all’inverso. Solo un paio di volte, negli anni, siamo stati colti in fragrante, ma eravamo già in cucina, mezzi nudi, coi pantaloni appena appesi alla funicella di fuori. «Scesi per bere un bicchiere d’acqua» – era la scusa. La faccia da sonno comunque l’avevamo tutta e allora ‘tornavamo su’ per le ultime ore di riposo.

Penso con rimpianto a quanto poco tempo ci servisse, allora, per ricaricare le batterie. Due o tre ore e tornavamo a piano terra per fare colazione.

Festine o festini?

Viky era la star; il nome ‘Vittorina’ non le stava bene. Era il massimo dell’esotico, ancora più delle francesi, figlie di emigrati che tornavano anche loro dai nonni e che parlavano perfino in dialetto con una leggera erre moscia. La Viky era snella e abbronzata su una carnagione già mora di suo, con due splendidi occhi e aveva movenze feline.

Nando era tra i meno giovani della nostra compagnia e aveva già un buon lavoro di tecnico all’Enel. Non so come ma nei primi anni Sessanta si era comprata una MG spider color verde scuro e con le ruote a raggi, su cui Viky saliva col viso coperto da un foulard sgargiante, proprio come nei film; e se ne andavano, con tutta la nostra invidia appesa al culo.

Le ultime ore del mattino ci servivano a prendere il sole sdraiati sulle crode sulla Piave dove si sentivano gli sviluppi della sera precedente e le novità dei romanzi personali. Il pomeriggio era per le festine campestri, organizzate in piccole radure individuate tra la giovane vegetazione delle ‘grave’ fatta soprattutto di salici e robinie. Si levavano i sassi emergenti dal piano sabbioso con l’erba appena accennata, si stendevano gli asciugamani e si preparava il mangiadischi per i 45 giri.

Si cantava, si suonava e un po’ anche si ballava ma era tutto troppo chiaro, troppo aperto. Non c’era gran gusto in generale ma l’occasione era buona per tentare di captare qualche cenno di disponibilità, magari per un appuntamento serale. Poi, tra il dire e il fare c’era sempre di mezzo un mare … di raccomandazioni, ormai incrostate nelle nostre orecchie.

Le festine, quelle serie, necessitavano di un ambiente opportuno. Per qualche anno la casa di Tòno risultò ideale per fare ciò: fuori mano, con prato e giardino, arredamento spartano e soprattutto inutilizzata dai genitori che non ci venivano quasi mai – troppo occupati.

Si iniziava nel primo pomeriggio; ognuno portava qualcosa: chi da mangiare, chi da bere, chi solo qualche amica (quello sì era il benvenuto!). I liquidi alcolici arrivavano spesso da casa per ‘asporto silenzioso’, come pure non si facevano tartine o sandwich ma panini col salame (nostrano) o formaggio. La cosa che si faceva di più, oltre a ‘puntare’, era fumare. Marche ce n’erano di ogni sorte e ognuna rappresentava il proprio fumatore: le ragazze andavano a Kent, a Mercedes, a Ernte 23; i ragazzi a Nazionali e a Super col filtro; le Marlboro erano per tutti e le Gouloise per adulti con riserva: i nostri amici Francesi le adoravano e facevano molto ‘maschio’.

Quando arrivava il buio metà delle ragazze era già tornata a casa e quelle che rimanevano, erano già accoppiate. Così si finiva per bere, tanto per cambiare, e qualcuno perfino troppo. Ricordo che una volta, per far ‘rinvenire’ Luigino che era proprio ‘spolpo’, lo abbiamo messo seduto su una sedia sotto un ciliegio dopo aver attrezzato un ramo con la gomma a getto d’acqua della pompa da giardino. Poi abbiamo aperto il rubinetto senza alcuna sua reazione e l’abbiamo lasciato così per una mezza oretta. Abbiamo poi tentato una miglioria infilandogli direttamente il tubo nei blue jeans. Non so quando si è ripreso: per fortuna era caldo e ci ha pure ringraziato. Ginetto aveva il pallino del cinema e in seguito se ne andò a Roma: chissà se gli è andata bene.


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