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lunedì 8 Dicembre 2025,

Walter Bonatti, il fotografo-alpinista che ha cambiato la fotografia di montagna ►FOTOGALLERY

Non era un fotografo che andava in montagna. Era un alpinista che portava con sé una macchina fotografica. E questo cambia tutto

Ci sono figure che lasciano una traccia indelebile per le loro esplorazioni, altri per le loro parole, altri per le immagini. Walter Bonatti, alpinista, esploratore, fotoreporter lo ha fatto con tutto questo. In questo articolo l’accento però non è sull’alpinista leggendario, ma sul fotografo, capace di portare nel linguaggio visivo la stessa etica, purezza e radicalità che metteva nelle scalate. Le sue sono fotografie nate non da un punto d’osservazione esterno, ma dal cuore dell’azione, dalla montagna vissuta, sfidata e amata. La montagna nelle fotografie di Walter Bonatti non è sfondo, ma soggetto e relazione.

La forza fotografica di Bonatti deriva da un fatto semplice e straordinario: stava nei luoghi dove nessun altro fotografo sarebbe potuto arrivare. Non era un fotografo che andava in montagna. Era un alpinista che portava con sé una macchina fotografica. E questo cambia tutto, perché raggiungeva posizioni che nessun fotografo “esterno” avrebbe potuto raggiungere. Inoltre conosceva la montagna, le sue luci improvvise, i suoi silenzi e sapeva muoversi con attrezzatura minima, rapidità, consapevolezza tecnica. La fotografia, per Bonatti, nasceva dall’esperienza, non dall’attrezzatura. Il suo sguardo era più importante della sua macchina, e questa è una lezione che ogni fotografo dovrebbe tenere con sé.

Ma vediamo più nel dettaglio: qual è la sua attrezzatura fotografica? Come per ogni fotografo è cambiata nel tempo, sempre mantenendo nelle macchine le caratteristiche fondamentali di leggerezza, robustezza, affidabilità. Ve le presento: Ferrania Condoretta, una delle macchine che usò nelle sue prime imprese, semplice, resistente, perfetta per chi viveva esposto a neve e ghiaccio; Voigtländer Bessa 6×9 a soffietto, presente nei suoi primi anni di fotografia. Compatta, affidabile, ideale per le salite dove ogni grammo contava. E per finire la Olympus OM-1 utilizzata negli anni ’70, durante il periodo da fotoreporter per Epoca. Uno degli esemplari è oggi conservato nel suo equipaggiamento storico presso il Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi” – CAI Torino dove si trova anche l’archivio delle sue fotografie che conta oltre 100.000 fototipi, tra stampe, diapositive e negativi.

Per Bonatti tuttavia la macchina non era mai protagonista. Era uno strumento di lavoro, spesso portato in condizioni proibitive come il gelo estremo le scalate solitarie, le pareti miste di ghiaccio e roccia e i bivacchi sospesi. La fotografia di montagna praticata da Bonatti richiedeva competenze specifiche ancora oggi validissime.
Gestione della luce estrema: il bianco della neve, unito al sole alto, creava un rischio continuo di sovraesposizione. Bonatti esponeva “a occhio”, compensando con precisione manuale;
– Attese e tempi lunghi:
era un’epoca, e lo è ancora per chi conosce davvero la fotografia, in cui l’attesa faceva parte dello scatto. Bonatti sapeva aspettare la luce giusta, anche in condizioni durissime;
Attrezzatura minima: portava quasi sempre una sola macchina e una sola lente. Ridurre il peso era vitale;
Protezione della pellicola: umidità, vento, ghiaccio: il suo zaino era un piccolo laboratorio mobile, organizzato con cura quasi ossessiva.

Uno degli aspetti più affascinanti del Bonatti fotografo è l’uso frequente e consapevole dell’autoscatto. Non era solo necessità, nelle sue imprese solitarie non c’era nessuno che potesse fotografarlo. Era una scelta narrativa. L’autoscatto diventava testimonianza del momento: un bivacco a 4000 metri, una cresta ghiacciata, la scalata invernale. La sua figura, inserita nell’immensità delle sue imprese era piccola e quasi astratta, diventando un segno poetico e potente dell’uomo che non domina la montagna, ci si inserisce come tassello di un mosaico. Per farlo, Bonatti posizionava l’apparecchio con cura: linee, prospettive, profondità. Molti dei suoi autoscatti hanno una precisione compositiva sorprendente, considerando le condizioni in cui venivano eseguiti. Utilizzava l’autoscatto meccanico che gli consentiva di avere un tempo sufficiente per posizionarsi su crinali, creste e appoggi instabili. Molti dei suoi scatti migliori sono proprio autoscatti.

Ma cosa succede al Bonatti fotografo dopo il ritiro dall’alpinismo estremo avvenuto nel 1965? Bonatti continuò a fotografare diventando fotoreporter per il settimanale Epoca, del gruppo Mondadori. I suoi reportage lo portarono in Amazzonia, in Patagonia, nel Sahara, in Indonesia, in Papua Nuova Guinea. Le sue immagini erano spesso copertine, portfolio centrali, o reportage completi. Ed è proprio qui che la sua fotografia d’avventura raggiunge il grande pubblico. Le sue fotografie hanno un ruolo fondamentale anche nei libri che pubblicò: “Montagne di una vita” (1980) che è il suo libro più famoso; “In terre lontane” (2002) è una raccolta dei suoi reportage da esploratore-fotografo dopo il ritiro dall’alpinismo estremo; “Un mondo perduto. Viaggio in Borneo” (2006) e “Oltre il confine. La mia vita per un sogno” (2011, postumo) libro autobiografico definitivo, completato con la collaborazione di Rossana Podestà.

Se ti ho incuriosito oltre ai suoi libri ti indico anche alcune pellicole dedicate a Bonatti come “Sul tetto del mondo” del 2021, “W di Walter” del 2013, “K2 – Bonatti contro tutti” un documentario sulla vicenda del 1954 e “Walter Bonatti: Una vita ad alta quota” del 2020. Un ultimo lavoro in arrivo è “Bianco”, diretto da Daniele Vicari. La pellicola ricostruirà la tragica spedizione del 1961 al Pilone Centrale del Frêney, sul Monte Bianco e uscirà probabilmente nel 2026.

Bonatti è stato indiscutibilmente uno dei più grandi alpinisti della storia ma qui l’ho voluto celebrare anche per un altro suo grande valore: perché per chi ama la fotografia di montagna Bonatti rappresenta qualcosa di ancora più raro e cioè è un uomo che ha saputo trasferire la montagna in immagine: un’immagine con un linguaggio sobrio, vero e profondamente umano. Non ha mai fotografato ciò che vedeva ma ciò che viveva.

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