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domenica 14 Dicembre 2025,

2. 1946 Primo evento, nato a stento

«Il futuro è già passato ovvero mi, Belun, i Belumat e le bele compagnie». 2a puntata

Partorirmi non fu facile perché pesavo passa quattro chili e mia madre non era sufficientemente elastica nella struttura interessata. Nel tirarmi fuori, a suo dire, ci fu la necessità di tagliare e cucire in abbondanza. Per questo i medici le suggerirono di non allargare la famiglia. Sono figlio unico e, a dire il vero, non credo di aver patito la mancanza di fratelli, neppure in età inconsapevole. Figli, in quell’anno di primo dopoguerra, ne sono nati tanti, vuoi della speranza, poi della certezza nella pace. La solidarietà era molta e gli ‘asili nido’ per i figli delle lavoratrici stavano nelle case di amici e parenti dove si trovavano i miei pari.
Non ho mai voluto credere a mia madre che mi diceva di essere stato un po’ rachitico nei primi anni di vita per la scarsità di cibo, ma ho un ricordo insistito di un piccolo forno da pane, anche lui fatto in casa, riscaldato con le resistenze elettriche avvolte sulle candele ceramiche da mio padre, che di mestiere faceva il capotecnico alla Chinaglia. Il colore argenteo e freddo delle spirali in nichelcromo che si facevano marroni, rosse, poi incandescenti nei mattoni, e l’odore del pane prima e dopo e durante la cottura, sono le uniche memorie oltre agli scalini per entrare nelle piccole stanze della casa a pian terreno di via Feltre.
Del resto ricordo più l’esterno che l’interno, dove probabilmente c’era poco da portare a memoria, o per gli stimoli straordinari forniti, sul fronte strada, dalla presenza delle pietre lavorate di Giovanni Caldart, marmista, e sul retro, degli odori della premiata distilleria Prest: entrambi considerati alla stregua di maghi. Ricordo ‘l Nani’ incipriato di marmo bianco, e lo credevo fatto della medesima essenza degli angioletti scavati nelle pietre tra cui mi aggiravo, anche se per sentieri ufficialmente proibiti. Quando mia madre mi ripigliava, la sua risata sotto al cappello di carta, era argentina. Per quanto ricordo non mi ha mai sgridato e sono certo che un giorno, per me, ha trasformato in nave il suo copricapo, per la navigazione in una cunetta di via Feltre, dopo un temporale. Mi regalò anche del ghiaino bianco, di quello che stava davanti alla bottega, per fare le stradine del mio primo Presepio. Ma ero già vecchio, avrò avuto tre-quattro anni.

Gianluigi Secco nel 1946.

Vicino, molto più pericoloso per i suoi ganasin, era el sior Virgilio che ricordo altissimo, magro, allampanato e temuto solo per quel suo vizio di stringermi, tra due nocche, le gote mentre mi chiamava Giabùrc1. Virgilio e la siora Wilma stavano all’ultimo piano e avevano tre figli, Gigi, Wanda e Maurizio, che frequentavo specialmente quando prendevano qualche malattia infettiva: la filosofia di mia madre era quella di darmi l’opportunità di ammalarmici assieme per superare le pestilenze tipiche del bambino – che sarebbe stato peggio prendere da grandi – diceva.
Il morbillo di sicuro lo passai con Wanda; la scarlattina, mi pare, con Maurizio; gli orecchioni2, i più temuti, nonostante ben due occasioni condivise in tempi diversi, non riuscii a ‘prenderli’ con grande disappunto e danno perché mi si presentarono verso i sedici anni con tutti i rischi del mal de l moltón3. Sempre Giabùrc, ma con l’aggiunta di ‘principe de i demòni’, mi chiamava la Emma, amica di mia madre, sarta provetta e di cui ricordo la nerissima capigliatura. Era moglie di un altro ‘mago’ dei miei preferiti, Bruno Rossa: faceva il pittore-decoratore e di lui ricordo una giardinetta verde elaborata per il proprietario commerciante con scritte e due grandi immagini ai lati con montagne e due secchi di latte. Me li ricordo perché confliggevano col medesimo lavoro di Giselda, una ragazzona che ogni mattina ci portava quello vero, cavalcando una bici lucida come il contenitore del latte fissato davanti al manubrio, da cui estraeva la candida bevanda (che era ancora tiepida e sapeva di vacca) da un piccolo rubinetto situato a fianco. La cosa più bella che aveva, oltre al nome, era un gran seno che portava allegria senza sapessi il perché.

Gianluigi Secco, 1947. «Cocò».

Di fronte alla porta di casa, pochi metri di sterrato e poi un basso muretto e la rete del giardino dei Panzan, una vera irraggiungibile giungla piena di verdure e d’alberi: luogo desiderato ma altamente proibito, sia per le raccomandazioni di famiglia che per l’inadeguatezza d’età rispetto ai figli dei dirimpettai, il più giovane dei quali, Geta diventò poi l’ingegner Luigi Panzan, amico di maturità. Tranne i citati, non ricordo compagni di gioco locali: via Feltre era considerata periferia della città essendo ‘fuori porta’, anche se l’arco della medesima era scomparso qualche anno prima.
Di rimarchevole, nei suoi paraggi, ricordo il caʃinet, bottega comperativa in cui si poteva acquistare di tutto, nonostante questo fosse dislocato nello spazio ridottissimo di una stanza interrata rispetto al piano stradale, per cui l’accesso avveniva tramite scalette. Dalla botola del caʃinet arrivavano continuamente odori diversi e mutanti: da quello della mortadella, alla cera per pavimenti, all’odore di varechina, di sapone fresco, e soprattutto di baccalà nei giorni dell’ammollo.
Poco più avanti l’Istituto Sperti da cui stavo distante: m’inquietavano le file in coppia di bambine (forse erano ragazze) che regolarmente uscivano ed entravano dal cancello, accompagnate dalle loro vigilanti vestite di nero. Per le suore non avevo evidentemente gran simpatia, forse perché ritenute troppo severe. Ne potevo constatare l’efficacia andando all’asilo poco più in là, ma già in centro, nelle stanze affacciate al chiostro dell’ex convento delle Clarisse4, utilizzato anche come scuola materna con accesso da via Garibaldi, già Borgo Tiera, dove oggi sono tornato a risiedere proprio dove in quegli anni abitavano amici tra i più cari ai miei genitori: i Colombo, i De Zan e, soprattutto, i miei ‘Santoli’ Beniamino e Franca Bogo, il cui primo figlio, coetaneo e Gianni come me, divenne il compagno inseparabile della mia prima fanciullezza in gioventù, come e più di un fratello. Con lui trovavo sopportabili persino gli abbigliamenti che tanto piacevano alle nostre mamme, le quali approfittavano di tanta innocenza per sperimentare la moda appresa con ansia e settimanalmente applicata dalle pagine illustrate di “Grazia” e “Mani di fata”. D’altronde i soldi erano pochi e il fai da te era una assoluta necessità.
Altra Gianni, ma al femminile, era quella dei Colombo, detta cinini (picinini, piccolina) dal padre, altro Nino, rifuggito perché ganassinaro ma straordinario gommista.

Belluno, 1948. G & G in piazza Campedel.

Tutto questo universo spiega come mi senta, da allora, un cittadino della Belluno nuova, ossia di quella fuori le mura, affatto invidioso di quelli dentro poiché anche noi godiamo di moltissimi gioielli architettonici e di un sacco di ex chiostri e conventi5: in più, da Campedel in fuori, siamo anche ‘liberi’. Via Garibaldi era quasi una repubblica di botteghine: da quella dei Ciampi (prima c’era Leone Piazza), comperativa alimentare alla moderna tipografia a caratteri mobili passando da ‘Toni letrico’, da Gris, el scarpèr, e la sorella sarta, dal maestro Piovéta (Guatti-Zuliani) detto Sguazzi piovani, maestro della banda di Belluno, i fratelli Olivotto di cui uno poeta e suonatore di violoncello e attore filodrammatico.

C’erano poi i Vedana ‘vendita vini’, Da Ronc Postino, la Maestra Tredici e il sarto Maniezzo suo marito; la Maestra Barbi; l’Ostaria Miot in curva, Remo il forner col giovane Luigino Roda, tutta la mattina indaffarato a portare il pane con le ceste di ferro a maglia aggrappate alla bicicletta: un comune pan comune in grado di profumare l’intera via per ore.

Belluno, 1949: G & G.

Qui lavorava persino il ‘mio’ barbiere, Bepi Bogo, fratello di Guerrino e di mio Santolo Beniamino. Anche lui era tra i miei preferiti perché ogni tanto mi faceva sedere su una specie di sella dotata di bellissimo muso di cavallino; così non vedevo l’ora di farmi i capelli, altro che capricci! Benvenute persino le incipriate di borotalco su la ciópa, sempre eccessive. Aveva un cassetto largo pieno di macchinette e di forbici, tra cui quelle dalle punte lunghissime che gli cantavano in mano con sorprendente e costante frequenza di battuta prima del colpo decisivo del taglio. Aveva poi una lunga cinghia sulla quale, all’occasione, indugiava a lungo per affilare, abbastanza spesso, i vari rasoi. In uno scomparto speciale teneva affollati anche certi piccoli calendari, proibiti e profumati, che passavano silenziosamente di mano in mano agli adulti in prossimità delle feste.

I terminali naturali di via Garibaldi, per me, non erano tanto piazza Campitello e del Duomo, quanto due particolari locali pubblici, e il mio giorno preferito era la domenica, specialmente il pomeriggio.
Al Ferrovia6, dove la combriccola di mio padre giocava a brìscola ma soprattutto a scarabocio, arrivavano certe patate al burro infilzate negli stuzzicadenti, che rasentavano la delizia: prelessate squartate rosolate, profumate appena di rosmarino, bollenti, da siori insomma o da bambini! L’ambiente era fumoso; quella nebbia sapeva di tabacco da pipa e da trinciato forte dei mezzi ‘toscani’; anche da brodo recente, fatto con manzo di quarta e pita (le polpette erano buonissime ma care, e ogni tanto arrivavano cicchetti di testina o nervetti e perfino fette di musetto fumante, tutta roba che chiamava da bere, tutta roba da soli adulti). Tra i tavoli da quattro – sempre occupati alla sera e di festa, col loro bel panno verde tenuto teso dalle mollette di acciaio che tanto mi incuriosivano – e la cucina, c’era solo una bassa balaustra con due aperture ai lati: tutto a vista, senza mistero, senza aspiratore e senza obblighi Usl, ovviamente. Si rischiava persino di avere anche un assaggio di chinotto o un sorso di spuma, anche se per berne un bicchiere intero avrei dovuto aspettare ancora qualche anno.
Al Mirapiave invece c’era la birra e un immenso nuovissimo campo verde con le boccette rosse e bianche. Poi la terrazza con vista sul fiume cittadino, ma soprattutto adatta a riprendere il fiato dato che dentro il fumo e l’odore di cicca regnavano sovrani. Al Mirapiave soprattutto arrivavano le novità. Qui ebbi il battesimo dei toast7 e della Coca Cola, ma continuai a preferire patate e il raro chinotto: un segno del destino.

  1. Soprannome del diavolo. ↩︎
  2. Orchite. ↩︎
  3. Si rischia la sterilità, ma per fortuna, mi è andata bene. ↩︎
  4. Il consiglio della Serenissima, con lettera ducale del 27 giugno 1608, approvò la richiesta del Consiglio dei Nobili di Belluno di fondare un convento nella città, sotto la regola di Santa Chiara e l’invocazione di Santa Maria di Loreto (da cui il nome di Borgo e via Loreto). La costruzione iniziò nel marzo del 1612 in località detta ‘Favola, oggi Borgo Garibaldi. L’edificio, completato nel 1632, fu occupato dalle suore nel 1634. Il monastero fu soppresso giuridicamente con decreto Napoleonico il 25 aprile 1810 e quindi abbandonato dalle suore. I locali dell’ex convento furono acquistati nel 1811 dal Comune di Belluno e usati prima come magazzino e poi, alcune volte, come caserma. Nel 1822 detti locali furono destinati alla scuola comunale. Nel 1834 vi fu istituita una Scuola Professionale che nel 1867, fu pareggiata alle altre del Regno, con facoltà di rilasciare attestati valevoli per l’ammissione agli Istituti Tecnici Superiori e per concorsi  per l’impiego pubblico. Nel 1868, il Comune, intitolò la scuola a “Tomaso Antonio Catullo”. ↩︎
  5. Oltre a quello già menzionato delle Clarisse, si va dal più celebrato convento dei Serviti, presso la chiesa di Santo Stefano (oggi Intendenza di Finanza); al convento dei Minori di San Pietro che dal 1834 ospita il Seminario; al collegio dei Gesuiti e al convento delle monache cistercensi (Chiesa di S. Gervasio e Protasio). ↩︎
  6. Dove poi si sviluppò l’Albergo ‘Centrale’ e prima esisteva l’Albergo ‘Ferrovia – Garibaldi’. A fianco, proprio sull’angolo compare, almeno nelle foto fino agli anni Cinquanta, anche la fontana rionale. ↩︎
  7. Sottili fette di pane passate velocemente in un microforno a resistenze elettriche, con dentro una farcia di prosciutto cotto abbinato a una ‘sottiletta’ di formaggio morbido, scaldate fino a tostare e a compattare gli ingredienti. Il profumo che usciva da questa nuova ‘diavoleria’ tecnologica americana sembrava irresistibile. ↩︎

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