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giovedì 19 Giugno 2025,

Papa Leone XIV è “bergogliano”? Sì, ma soprattutto… “leoniano”

Sta “a destra” o “a sinistra” del predecessore? Ne proseguirà l’operato? Restaurerà o innoverà?

Leone XIV è un “bergogliano” o no? Molti se lo sono chiesto, già all’indomani della fumata bianca in Vaticano. I paragoni scattano come un riflesso condizionato. E ancora: sta “a destra” o “a sinistra” del predecessore? Ne proseguirà l’operato? Restaurerà o innoverà? La storia millenaria della Chiesa dimostra che queste domande sono perlomeno malposte, perché ogni pontificato è segnato da una cifra propria, originale, che sfugge alle categorie “politiche” in cui si suole incasellare il potere. E anche i tratti più personali sono egualmente unici. 

Sicuramente papa Prevost è meno pop di Francesco negli atteggiamenti e nell’indole (le sorprese con i papi, tuttavia, sono sempre dietro l’angolo). Ma, al di là della gestualità, sembra nel solco scavato dal predecessore, che lo ha voluto, ricordiamolo, prima vescovo nel 2014, poi in curia a Roma, infine cardinale nel 2023. Non sono sfuggiti i due affettuosi, riconoscenti ricordi di papa Francesco nel suo affaccio di saluto. Inequivocabili le parole (scritte e non pronunciate a braccio) con cui s’è presentato alla cristianità dal balcone di San Pietro.  “La pace sia con tutti voi”. Nel suo primo saluto ha esordito augurando la pace, poi citata ben altre otto volte. Un impegno chiaro, quasi programmatico. Non una pace qualsiasi, ma aggettivata da un “disarmata e disarmante”. Mica male come presentazione, in un contesto internazionale pervaso da conflitti e tensioni che sconvolgono tante parti del mondo. Parole coraggiose pronunciate nel cuore di un continente, l’Europa, in cui risuonano cupe da qualche tempo le grancasse del riarmo. Come a sconfessare fin da subito il “si vis pacem, para bellum”, rinato, pervasivo pensiero unico delle leadership europee e nostrane. Anche qui questo “appello” tra le righe ai governanti si fa eco di quelli continui, infaticabili lanciati dal papa argentino, finché ebbe un fiato di voce.

Mite ma deciso, commosso ma lucido, pragmatico ma ardente nello spirito. Nord-americano, ma anche sud-americano. Statunitense di Chicago, ma il cardinale più distante da Trump. Uomo di cattedra accademica, ma insieme missionario di lungo corso. Robert Francis Prevost, salito al soglio pontificio giovedì scorso, dopo appena quattro scrutini, unisce insieme più tratti, apparentemente anche contrastanti, in un interessante meticciato di qualità che dimostrano, una volta di più come la Chiesa cattolica possegga nel suo seno personalità capaci di interpretare la complessità dei nostri tempi, forse come nessun’altra istituzione al mondo. Qualità comunque diverse da quelle del gesuita Bergoglio.

Inaspettato, l’esito del voto del conclave anche stavolta ha confermato come le logiche che sottendono alle previsioni siano fallaci quando si applicano al governo della Chiesa e al suo momento decisorio più alto. Alla fine s’è andato oltre Atlantico, nelle Americhe, per trovare il successore di Pietro, come fu per papa Bergoglio, quando i più s’attendevano un pontefice italiano (leggi Parolin), o quantomeno europeo, fosse solo per un ipotetico principio d’alternanza.  Fragili algoritmi di previsione che non c’azzeccano nulla con i pensieri del collegio cardinalizio, né tantomeno, per chi crede, con lo Spirito che aleggia in Sistina durante il conclave. «Il vento soffia dove vuole, non sai né da dove viene, né dove va», recita, d’altra parte, il Vangelo.

Ne è uscito invece un pastore, che viene dal Paese più ricco del mondo, ma con l’attenzione primaria e la cura appassionata verso i diseredati della terra; nato nell’Illinois, a Chicago, ma da non confondere con Chiclayo, che invece è la diocesi peruviana da lui guidata per lunghi anni e salutata in lingua spagnola. Verrebbe da dire, giocando con le assonanze verbali, Prevost è sì born in USA, ma anche frate dell’OSA, mcioè, anzitutto, religioso dell’Ordo Sancti  Augustini: meno Usa che Osa, insomma.

Nel 2023, in un’intervista uscita sul sito degli Agostiniani, gli venne chiesto che cosa significasse essere un buon pastore, e lui rispose: “Essere in grado di accompagnare il popolo di Dio e di vivere vicino a lui, non essere isolato. Papa Francesco lo ha detto chiaramente molte volte. Non vuole vescovi che vivono nei palazzi”.

Prevost è uomo di missione, quindi, ma con la capacità di governare gli uffici della curia vaticana, a Roma, visto l’incarico conferitogli da Bergoglio di prefetto del Dicastero per i vescovi. E perciò anche un Papa col profilo giusto per “mettere a terra” alcune delle riforme più importanti di Francesco, che sono cantieri ancora aperti e che forse col papa argentino sarebbero rimasti tali, senza un “fine lavori”. 

Come papa Francesco, si iniziano già a contare tante “prime volte”: primo statunitense, primo peruviano, primo agostiniano. Primo missionario con doppia cittadinanza. E chissà quante altre “prime volte” nei gesti e nelle decisioni segneranno anche questo pontificato.

Sempre nelle sue prime parole c’è la Chiesa che chiede aiuto nella “costruzione di ponti” con ”il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo, sempre in pace”. Quante volte papa Francesco ha invocato “ponti al posto dei muri”? Ma d’altra parte cos’è il Pontifex  se non un costruttore di ponti, come sta a significare il latino?

E subito dopo viene l’altra immagine della “Chiesa missionaria, sempre aperta a ricevere, come questa piazza con le braccia aperte, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, della presenza, del dialogo, dell’amore”. Quanto assomiglia alla “chiesa in uscita”, se non alla  “Chiesa ospedale da campo”, immagini tanto care al Papa venuto dalla fine del mondo.

“Vogliamo essere una chiesa sinodale”, ha detto, alla fine, Papa Leone XIV. Anche qui un aggettivo non casuale, ma dedicato a quella riforma cruciale che Francesco ha avviato con forza, e che potrebbe portare a un maggior spazio di condivisione e collegialità intra ecclesiam, a partire dalle comunità locali, dalle parrocchie. Anche questa riforma a metà del guado e paventata da non pochi oppositori di papa Francesco.

E infine il nome: Leone, lo ha esplicitamente dichiarato Prevost, si rifà esplicitamente a Leone XIII, autore della Rerum Novarum l’enciclica delle “cose nuove”, che pose i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa. Un nome, quindi, che impegna all’attenzione delle realtà del mondo e che manifesta la volontà d’affrontare le sfide della contemporaneità, a partire da quella che pone l’intelligenza artificiale.

Ma Leone è anche San Leone Magno, uno dei grandi dottori della Chiesa, colui che, disarmato, fermò Attila sul Mincio. C’è un’ultima intrigante suggestione: Leone è anche il nome del frate che fu compagno inseparabile di san Francesco e che redasse la nuova Regola francescana. Colui che più d’ogni altro restò vicino al Poverello d’Assisi. Un nome, un programma, anche quest’ultimo.

Papa Prevost allora è bergogliano? Molti indizi sembrerebbero dimostrarlo. Ma forse è già solo “leoniano”. 

Amichevolmente,

Alberto Laggia

2 commenti

  • Per me è un uomo di Dio, scelto dallo Spirito Santo, che avrà anche bisogno della nostra sincera preghiera.

    • E’ così. Ogni pontificato porta con sé “l’imprevedibile” dello Spirito.
      Grazie Rita.
      Alberto

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