Durante il periodo delle elementari, i momenti salienti di convivenza fuori di casa furono principalmente quelli estivi passati al mare in colonia. Vi andammo per almeno due o tre anni. La vacanza a scopo di divertimento era ancora lontana dalla mentalità e possibilità dei nostri, mentre quella a scopo salutare per i bimbi era una tradizione consolidata fin dai tempi del fascio ed entrata nella consuetudine ‘popolare’.
«I toʃatei à bisogno de sol» diceva mia nonna segnata da anni di vacanze elioterapiche, e così tra Enti locali e Parrocchia finimmo in colonia a Caorle ma credo anche al Cavallino di Venezia con la P.O.A.1.

La vita di colonia mi sembrava fantastica e non capivo come facesse ad avere nostalgia di casa un nostro compagno che piangeva ogni giorno. Bella cosa, noi arrivavamo in colonia nella stessa formazione tipo dell’oratorio, salvo piccole defezioni, per cui eravamo abituati a giocare, a scherzare, a ‘fare gruppo’ si direbbe oggi; quindi anche a difendere e ad offendere, se necessario, la nostra identità.
Nei due-tre anni in colonia sono passato dalla categoria pulcino a quella di capo. I pulcini tacciono e imparano e i capi guardano, decidono e fanno. I punti salienti della vita in colonia sono: mangiare, giocare, dormire e rapporto con le signorine. Le signorine avevano il compito di controllarci, ma non sapevano che noi facevamo altrettanto spiandole in modo molto più efficace perché in molti.
Fare ciò rappresentava uno dei massimi divertimenti e poi ce la raccontavamo tutta ‘relazionando’, se così di può dire, al gruppo.

L’incarico di vigilante richiedeva impegno, specialmente quando eravamo in spiaggia, per organizzare qualche gioco collettivo, per sedare qualche inizio di lite e soprattutto per gestire gli scaglioni dei gruppi ‘da nuoto’ cui veniva concesso il diritto di arrivare con l’acqua al sedere (tanto per dar ragione al detto che dice co l aqua toca l cul se impara a nodar). Non avevamo maestro di nuoto e ognuno faceva alla meglio: i più bravi a rana, altri a cagnét (alla cane) e i non dotati a maton.
Ah ecco, il compito delle signorine era asciugarci con grandi rùspeghi asciugamani, il che ai più grandini ispirava fragili sogni suffragati più dalle dicerie che dagli ormoni, che pur cominciavano a brulicare e che davano luogo spesso ad attività collettive di carattere privato nel corso del riposo pomeridiano obbligatorio o serale in camerata, o in caso di rientro anticipato per brutto tempo. La cosa, riservata a una setta segreta, faceva parte di un rito di iniziazione e segnava comunque un passaggio.
Al Cavallino la cosa era ancora più esplosiva perché, sulla spiaggia arrivava anche la frotta delle bambine, pure loro in colonia, anche se tenute separate da un corridoio di bandierine colorate, tutte rosse per l’ovvio pericolo.
La prima cosa che si faceva andando in spiaggia era guardare se il pennone basso piantato sul bagnasciuga portasse il vessillo rosso o verde, quest’ultimo indicazione di via libera per i bagni (quando fosse giunta la giusta ora). Si faceva quindi l’alza bandiera, a cura della squadra che aveva tenuto il miglior comportamento. Credo che ci siamo riusciti una sola volta in tre anni.

Poi ci si raggruppava per amicizie e ognuno faceva il proprio gioco. Il mio gruppo era specializzato in costruzione di strabilianti piste di sabbia con otto e doppio otto, paraboliche e mura lunghe, che richiedevano molto impegno e grandi quantità di acqua di mare da prendere col secchiello (uffa ogni volta chiedere il permesso). Arrivavamo al gioco sempre per ultimi, ma vedere le nostre biglie girare era talmente bello che gli altri smettevano il loro fare e diventavano pubblico.
Altro gioco con la sabbia, da veri maschi, era la variante su sabbia del cortelin o feret. Si trattava di maneggiare un pezzo di filo di ferro dritto con un ripiegamento in testa per appesantirlo su quel lato. La punta si appoggiava su una parte del corpo, inizialmente il palmo della mano, e con l’indice dell’altra si imprimeva al ferro un movimento rotatorio tale che si doveva infilzare verticalmente sulla polenta di sabbia predisposta a terra. La rotazione si diceva pìrola e si inventavano continue nuove posizioni per aumentare le difficoltà. Il punto critico era superare man bianca e man nera per arrivare nell’olimpo delle doppie pìrole.
Attività di destrezza, ma che richiedeva particolare sensibilità, era polenta. Il gioco consisteva nel preparare un cono di sabbia bagnata infilando sul vertice uno stecco o qualcosa di simile a mo’ di bandiera. Poi, fatta la conta e a turno, ognuno poteva togliere una fetta di polenta a piacere allontanando la sabbia con le mani. L’obiettivo era non far cadere la bandiera ma di mettere il più possibile in crisi il giocatore seguente. All’aperto non c’erano in ogni caso problemi di gioco perché tra libera-ferma (guardie e ladri), bandiera e quattro cantoni, c’era da correre fino a finire il fiato. Nelle giornate piovose, per fortuna erano poche, il gioco di moda era stechini ovvero Shangai e per i più intellettuali dama oppure giocare alle carte cercando di passarsi la vècia di spade.
L’altro momento cruciale era quello delle refezioni che non offrivano gran che, ma che erano sicure.
Al mattino caffelatte, molto ‘lungo’; a mezzogiorno, pastasciutta e alla sera minestrina. I secondi erano costanti: patate o capuz co la mortadèla o mortadèla co capuz e patate, con ovvie eccezioni o integrazioni.
Non ce ne importava poi molto del mangiare perché la quantità c’era, cosa che sorprendeva già molti dei presenti. Sulla qualità, nessuno era abituato a pretendere; semmai il punto sconfortante era la monotonia … ma mica si può avere tutto nella vita … e noi l’avevamo appena iniziata!
Tutte le puntate
- È praticamente l’antenata della moderna Caritas. La sua benemerita opera fu capillare in questo genere di iniziative con l’organizzazione di soggiorni sia al mare che ai monti. ↩︎
Seguici anche su Instagram:
https://www.instagram.com/amicodelpopolo.it/
