Belluno °C

venerdì 5 Dicembre 2025,

Severino Casara, la verità rimane obliqua

Permane il mistero sulla scalata del Campanile di Val Montanaia del 3 settembre 1925.

Fu un’impresa che appassionò e divise per un secolo il mondo alpinistico e che rimane ancor oggi una ferita aperta per la memoria di chi la compì e per tutti coloro che credono nei valori ispirati dalla montagna. La prima ascensione degli Strapiombi Nord del Campanile di Val Montanaia, che Severino Casara dichiarò di aver effettuato da solo, il 3 settembre 1925, all’inizio non suscitò polemiche, ma solo un’ammirazione sconfinata. Fu solo dopo l’uscita nel 1928 della guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti, contenente uno schizzo firmato da Annibale Caffi, che sorsero contestazioni, accuse e severe condanne, perché c’era di mezzo un passaggio definito da molti impossibile.

Ne nacque un autentico processo coram populo, al quale fu chiamato a dire la sua come perito tecnico lo stesso Berti, che in un dossier di 15 pagine riassunse i fatti rimanendo peraltro neutrale e passando il tutto, assieme a 171 fogli allegati, all’on. Angelo Manaresi, presidente del CAI.

Nonostante Ettore Castiglioni e Celso Gilberti definissero quella via possibile, la polemica non si spegneva, fino a giungere il 20 settembre 1931 ad una riunione degli accademici del CAI risoltasi col famoso “lodo di Bolzano”, che emetteva, alla Ponzio Pilato, un’assoluzione per insufficienza di prove. Per Casara essa in definitiva suonava come una condanna, tanto da indurlo poco più di un mese dopo a dimettersi da accademico. Finita lì? Neanche per sogno, visto che nel 1948 si tenne una “prova” di salita, artefici Attilio Tissi, i fratelli Andrich, Gino Soldà, cinque Scoiattoli di Cortina e altri ancora, da cui risultò che non si passava per quell’itinerario, cosicché il lodo di Bolzano venne riconfermato.

Nel 1978 Casara moriva dopo aver subito 50 anni di umiliazioni e questo per una misera decina di metri di roccia dolomitica.

«Animo entusiasta, cordiale, generoso, umano, istintivamente convinto che tutti siano bravi e schietti come lui, innamorato prima della montagna che degli acrobatismi necessari a scalarle»: così si espresse Dino Buzzati dopo aver letto un dattiloscritto di 277 cartelle che gli aveva fatto pervenire Lelia, la sorella di Severino Casara.

Otto anni dopo, nel 1980 lo stesso documento fu consegnato a Italo Zandonella Callegher perché ne facesse un libro. L’intenzione però venne subito “stoppata” dall’intervento di un anziano accademico del C.A.I. che, ricordando la lunga “quérelle” sulla credibilità della scalata del famoso strapiombo nord consigliava di attendere qualche anno ancora, quando fossero scomparsi dalla scena i pochi testimoni ancora vivi.

Così si dovette aspettare il 2009 per l’uscita del libro La verità obliqua di Severino Casara, scritto da Alessandro Gogna e Italo Zandonella Callegher (ed. Priuli&Verlucca), cui è seguito nel 2013 Sulle Dolomiti del Cadore (ed. Nuovi Sentieri), a firma dello stesso Zandonella. Quest’ultimo libro è proprio la riproposta del dattiloscritto di Casara che il curatore ha cercato di trattare con tutto il rispetto che esso meritava, senza stravolgimenti contenutistici e formali. Si tratta della ricostruzione filologica e storica di un arco fondamentale della carriera alpinistica di Casara, ma pure di un recupero di fatti, aneddoti, personaggi per così dire “minori”, capaci peraltro di illuminare la personalità del protagonista assieme al contesto sociale e storico in cui essa si plasmava e cresceva.

Il racconto ci ripropone, per esempio, la serena saggezza di Antonio Berti, la cultura ancestrale dei vecchi pastori della casera Cavallet, le lusinghe crepuscolari del Villaggio Barnabò di Gogna, l’affascinante “stranezza” di un giovanissimo Filippo Timbertelli (in arte De Pisis), la dolce determinazione di Luisa Fanton, il legame stretto con un povero ergastolano, l’amicizia di Emilio Comici, di Walter Cavallini, di Carlo Gera e di tanti altri compagni di cordata.

Ampio spazio viene riservato naturalmente al Campanile di Val Montanaia, alla temerarietà di quell’ascesa, ai dubbi sorti sui passaggi effettuati, al peso avuto nella polemica da foto e disegni ingannatori… Ma certamente il lettore non può chiedere né a Zandonella, né a Gogna la soluzione dell’annoso problema: ancor oggi, nonostante l’acribia di questi due autorevoli autori, se si prendono in considerazione solo i fatti storici, non si arriva ad un verdetto definitivo. La verità appare sicuramente più illuminata ma rimane comunque “obliqua”.

Un fatto però è certo: seguendo i meandri della complessa vicenda finiamo col conoscere a fondo tanti aspetti dell’uomo e dell’alpinista rimasti finora nell’ombra o comunque trascurati. E, una volta arrivati all’ultima pagina, la sensazione è di trovarci di fronte ad un uomo straordinario che non ha bisogno di assoluzioni.

Per un approfondimento su questa appassionante querelle, rimando al sito curato da Gogna, dove si trovano foto, tesi e ricostruzioni dell’impresa (anche con Mauro Corona) e dal quale traggo questa conclusione: «L’azione di quel giovedì 3 settembre 1925 è un capolavoro dell’inafferrabile perché è dimostrato che qualunque interpretazione da sola non basta a lacerare il velo di indicibilità dell’accaduto. Nessuno può spiegare come sono andati i fatti, nessuna via di scampo a questo. Ci è data una verità che non accettiamo e ne vorremmo una che non ci è data».

Walter Musizza

Seguici anche su Instagram:
https://www.instagram.com/amicodelpopolo.it/

1 commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *