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Alla fine del ’58, credo, arrivò la novità del rugby 13[1], che si giocava con un pallone diverso da quello da calcio e molto più difficile da afferrare: uno sport da fare con mani e piedi ma soprattutto, con la testa!
La passione per il rugby era arrivata alle caserme nel ’56 tramite qualche sportivo cittadino possibilmente pavano (chi dice con l’alpino Memi Geremia) che in breve era riuscito ad attrarre alla nuova disciplina nuovi proseliti; tra questi un paio di professori delle superiori, che non tardarono a coinvolgere i loro studenti dell’ITI ‘Segato’ a formare una piccola compagnia. Il gioco si faceva giocando con la squadra a 15 elementi, col modulo classico d’oggi, ma ne esisteva anche una forma semplificata e più snella che adottava due giocatori in meno. Tra i nostri massimi sostenitori, Oscar Fabrizi che teneva soprattutto a creare un vivaio giovanile. Aiutato da un paio di nostri studenti scout[2] trovò a Mussoi terreno molto fertile per adottare il modulo a 13 (che nel frattempo era andato in auge anche a livello nazionale) e in poco tempo coinvolse tutto il nostro gruppo di giovanetti, che si allenava nel campetto dell’oratorio e poi in quello dietro le caserme.
Il rugby 13 si chiama così perché viene giocato da 13 giocatori per squadra ed è stato soppiantato dal 15 attorno alla metà degli anni Sessanta proprio quando il Rugby 13 Belluno era arrivato alla serie A. Il gioco a 13 era molto più veloce e divertente perché le fasi di mischia (che è quella in cui buona parte delle due squadre si affrontano a tartaruga) sono assai ridotte e si gioca molto ‘alla mano’ cioè con passaggi laterali continui, calcetti a seguire, corse e ‘schivanelle’ che esaltano i protagonisti e chi li vede per la grande abilità e intelligenza delle scelte.
Il rugby è uno sport rude in cui si impara per prima cosa a rispettare l’avversario dato che ogni tipo di violenza potrebbe essere pericolosa. Conoscere il rischio che si corre ed imparare ad affrontarlo aiuta a comprendere anche quello dell’altro; in questo senso questo sport induce, per logica e per norma, all’attenzione e alla correttezza tanto che chi eccede con l’avversario è redarguito anche da quelli della propria squadra. Per giocare a rugby, oltre alle regole specifiche, occorre imparare a cascare senza farsi male, ovvero a scegliere il modo di finire per terra intanto che si cade.
Quello praticato da noi era una forma ancora più elementare di gioco e si chiamava rugby educativo. Le squadre erano di 7 giocatori ciascuna e non si potevano fare placcaggi alle gambe; l’avversario portatore di palla andava colpito con un leggero schiaffo sulla schiena al che si doveva sbarazzare immediatamente dell’ovale per non incorrere in una punizione contro. Il pericolo di farsi male era perciò molto relativo. Così, una volta che i tuoi di casa avevano capito l’andazzo, tua madre gridava meno se si arrivava coi panni tutti sporchi, anzi, si preoccupava esattamente del contrario.
L’oratorio del convento dei frati di Mussoi divenne presto uno dei centri nevralgici per il nuovo sport tanto da poter presentare alle competizioni un paio di squadre addirittura. I ragazzi trascuravano di giocare a calcio, votandosi in massa alla palla ovale.
Comunque di squadre ‘parrocchiali’ forti ce n’erano parecchie in Val belluna e il campionato provinciale di rugby educativo non mancava certo di protagonisti. Tra i miei compagni di squadra ricordo Renzo Fant, Francesco (Checco) Fabbiane, poi suo fratello Roberto (Truci), Walter Grandelis, Gramigna, Paolo Durigon, Cadorin, Piergiorgio Giacon, Celestino Bortoluzzi e suo fratello, Bruno Cabbia, Ezio Veronese, Sergio Schiffino, Moretti, tutti abitanti dalla Cerva in su, fino a Chiesurazza.
A Mussoi trovarono presto accoglienza, presso il convento dei frati cappuccini che si dedicarono con solerzia all’educazione dei loro giovanissimi, non solo tramite l’adesione alle associazioni cattoliche e allo scoutismo, ma realizzando un bel oratorio con una piccola sala teatro e con un campetto da gioco ricavato nello spazio retrostante verso la vecchia strada di san Lorenzo.
Credo che quello sia stato uno dei campi più frequentati più per il rugby che per il calcio.

Quando arrivò l’ora del campionato regionale, nel Sessanta credo, tra le formazioni giovanili provinciali, quella di Mussoi mise a disposizione parecchi atleti e partecipò alla selezione conquistandosi il diritto di giocare la finale regionale con le emergenti delle altre province. La sfida si disputò al Sant’Elena di Venezia e fu una grande giornata[3]. Sul verde erano tracciati più campetti dove i contendenti si sfidavano praticamente a torneo. Vincemmo le prime due[4] ma arrivati alle semifinali trovammo un arbitro che ci fischiava contro con partigianeria indecorosa. Siccome più sei giovane e più le ingiustizia stanno indigeste, ci stavamo avvilendo, anche per via di un fuori quota avversario che era davvero di un’altra categoria; così Francesco Fabbiane, che era il nostro fuori quota, si incaricò di stenderlo con una proibitissima manata sulla schiena. Uscirono dal gioco entrambi; poi recuperammo senza però riuscire a vincere quella sfida mentre ci andò meglio alla successiva. Ce ne tornammo felici con un terzo posto nella generale e una bella medaglia, la mia prima placcata di oro vero, al collo.
Comunque i più vecchi erano tutti sul limite e passavano presto alla squadra dei ‘grandi’, che andava ad allenarsi sul campo della Veneggia[5], vicino alla caserma Dall’Oro. Arrivato in serie A, il Rugby 13 Belluno giocò anche al nuovo stadio comunale.
Arrivati all’ITI venivano tosto assorbiti nella squadra dell’istituto (rugby ‘Segato’) promossa e sostenuta da un altro appassionatissimo, il prof. Repossi.
Il BELLUNO RUGBY 13 figurò benissimo tra le squadre venete iscritte al campionato di 13, a cavallo degli anni Sessanta e ciò si legge bene nella numerosa cronaca sportiva locale di quegli anni. Io pure vi partecipai, era il mio ultimo anno di ITI, in veste di riserva fino ad arrivare in panchina; ricordo che si giocava allo Stadio nuovo e che l’avversario era il CUS Torino.
I miei compagni titolari preferiti erano Sergio Fant, per l’eleganza del movimento e la visione di gioco, Dino ‘pancio’ Righes per la straordinaria mobilità e il gioco di gambe in fase di scatto. ‘Pancio’ arrivava alla celerità massima in pochi metri, proprio al contrario di Ezio Bergamo che era un vero ariete quando riuscivano a lanciarlo per tempo. In quanto a velocità pura Zallot era fenomenale come pure Angelo Bortot, detto ‘Tarzan’ primeggiava in potenza, ben pavoneggiata con le ragazze che già mostravano di apprezzare, a quei tempi, la sua ‘tartaruga’. La calma valorizzava l’impegno di Gino Grasselli, la grinta quello di Ezio Veronese e la flemma quella di Checco Fabbiane.

A Belluno sono convissuti non senza controversie e gelosie, due modelli di gioco facenti capo a proprie differenti organizzazioni[6]: il rugby 13[7], così detto perché giocato da 13 giocatori per squadra, ed il rugby 15, maggiormente dotato di un paio di unità nella squadra in gioco. La ebbe vinta il 15 che subentrò nei campionati e nella storia per cui del 13 pochi ormai si ricordano.
Per fortuna che Toni Palma si è dato la pazienza di raccogliere i pezzetti della storia di questo sport a Belluno e ne ha fatto un interessante libro[8] recentemente edito, cui si rimanda per avere una idea più consona al grande valore rappresentato in loco da questo sport in generale e … dai suoi giocatori, tuttora affezionatissimi anche se a conclusione dell’attività.
[1] Nel 1958 a Treviso, dopo anni di tentativi, presso il Notaio Luigi Di Francia si costituì la Federazione Italiana Amatori Rugby 13 (FIAR 13) che, subito dopo, venne riconosciuta dalla Rugby Football League ed acquistò credibilità internazionale. Con questo riconoscimento e con gli aiuti economici d’oltremanica, lo sport del rugby league venne diffuso in maniera massiccia in Italia. La FIAR 13 aveva per scopo la propaganda di questo sport e nel primo anno di attività risultavano già affiliate 24 società e di 620 atleti. Nel 1960 campione d’Italia risultò la squadra del Gorena di Padova.
[2] Sergio Fant fu uno degli eccellenti rugbisti italiani del 13 assieme a De Pase. Entrambi militarono anche in nazionale.
[3] Era un giovedì di fine maggio del 1960. Molte informazioni sono prese dalla cronaca sportiva del Gazzettino che fin dal ’57 segue a Belluno gli avvenimenti rugbystici. In questo modo si sono recuperati anche moltissimi nomi dei giocatori protagonisti o partecipanti. Era testimoniato perfino il mio!
[4] Tra i giocatori nostrani, oltre al sottoscritto ricordo Celeste Bortoluzzi, Francesco e Roberto Fabbiane, Renzo Fant, Grandelis e Gramegna, Piergiorgio Giacon, Ezio Veronese. Di tutti gli altri ho momentaneamente scordato il nome (me ne scuso ampiamente).
[5] I primi campionati si erano giocati allo stadio del ‘Parco delle Rimembranze’, dove si giocava anche il calcio.
[6] La storia è quella di un dualismo, tra le federazioni, anche a livello locale, senza esclusione di colpi con reciproche scomuniche e ‘dispetti’. Ai giocatori invece interessava il rugby e i loro spostamenti e travasi da una parte all’altra erano motivati da passione ed amicizia nella logica di una onorevole e adeguata collocazione.
[7] Nel 1958 a Treviso, dopo anni di tentativi, presso il Notaio Luigi Di Francia si costituì la Federazione Italiana Amatori Rugby 13 (FIAR 13) che, subito dopo, venne riconosciuta dalla Rugby Football League ed acquisto credibilità internazionale. Con questo riconoscimento e con gli aiuti economici d’oltre manica, lo sport del rugby league venne diffuso in maniera massiccia in Italia. La FIAR 13 aveva per scopo la propaganda di questo sport e nel primo anno di attività risultavano già affiliate 24 società e di 620 atleti. Nel 1960 campione d’Italia risultò la squadra del Gorena di Padova. NOTA DOPPIA VEDI 24
[8] Toni Palma. Rugby a Belluno 1957-2014 “da quei de la bala sloza a” – Ed. ASD Rugby Belluno, 2014
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