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sabato 7 Giugno 2025,

6. Impara l’Arte

«Il futuro è già passato ovvero mi, Belun, i Belumat e le bele compagnie». 6a puntata

Come si può evincere dalla descrizione appena fatta, io quegli attrezzi li ho visti e rivisti adoperare e anche adoperati sotto la guida di mio nonno, spesso contro il parere di mia nonna che reputava tutto come potenziale pericolo. Nono Nani, era di un’altra razza e sapeva condire ogni gesto con un motto e ogni iniziativa con un proverbio a favore o a monito. Con lui ho imparato a fare, e a vedere anche i pericoli senza necessariamente sperimentarli fino in fondo, arrivando a capire che non sempre è necessario provare per credere: così, assieme, mi sono scottato senza bruciare, mi sono tagliato senza dissanguare, ho anche pianto senza disperare, ma mi sono divertito tanto fino a capire che godere e imparare sono la stessa cosa. Esempi? Quella volta che realizzammo una nuova paretina in soffitta per ricavarci una stanzina da letto per i miei soggiorni estivi.

La paredana fu realizzata con l’anima in canèle ossia piccole canne palustri1 (con i pennacchi delle cui cime avevamo fatti scope e scopini). Una volta seccate se ne ricavavano mazzetti che servivano a tamponare un supporto di steli di canna o nocciolo intrecciati a maglia. Quindi si smaltavano i lati esterni con sabbia mista a calce e si tirava al liscio.

Fener, il ponte sul Tegorzo.

Per la calcina ero andato col nonno sui greti della Piave e del Tegorzo a cercare le pietre calcaree adatte alla trasformazione. Con la carriola ne trasportammo alcune cariche alla fornace che stava sotto la chiesa, a mezza strada tra Fener Basso e ponte Tegorzo.

Le fornaci.

Poi dovemmo aspettare che, con le pietre di altri, fosse fatta la colma e realizzata la cotta. Ricordo che ci resero altri sassi, però bianchi e leggeri. Il nonno me ne fece sollevare uno ben avvolto in un foglio doppio di giornale. Mi disse che se l’avessi toccato direttamente mi avrebbe bruciato le dita. Con cautela ne apprezzai la consistenza e la leggerezza; poi me ne tenni a debita distanza durante tutta la fase di spegnimento nella buca dove le bianche sfere si scioglievano a contatto con l’acqua versata prudentemente dal nonno e anche durante la successiva fase di mescolamento fatta con un arnese col manico lungo, una specie di rastrello tamponato, sotto l’azione del quale la calce diventava plastica e faceva ʃlurp. Una volta spenta, la calce diventava meno pericolosa e, mescolata con la sabbia della Piave se ne faceva malta o serviva, allungata con acqua, a dipingere di bianco e sanificare le pareti, le scorze degli alberi, a rigenerare il legno delle doghe marce delle botti, a conservare per lungo tempo le uova immerse con aggiunta di acqua. Esempi ne potrei fare a iosa perché ogni necessità era una occasione per imparare, vuoi a far fuoco, vuoi a far carbon di legna, vuoi a filtrare l’acqua con quello stesso carbone, vuoi a far sapone, a costruire muse, ad aggiustare la carriola, uno scuro, una porta, un piolo del galinèr (o punèr), una staccionata, tutto di tutto.

Vita in ghèto

Il ghèto era importante e all’interno di esso tutti sapevano tutto di tutti; porte e finestre sui lati esterni esistevano, ma di lì non trapelava nulla e di solito erano anche chiuse. Di giorno lo sterrato interno serviva per il transito di lavoro ma alla sera si trasformava e presso le porte delle case comparivano panchette e scagnei dove la gente si sedeva a prendere aria, a riposare, a chiacchierare, considerare, guardare… per poi ritirarsi definitivamente appena il buio diventava pesto.

Così l’ingresso principale che stava sulla strada buona, proprio di fronte al salone del monumento ai caduti, diventava accesso secondario e non si adoperava se non in occasioni rare come il funerale della mia bisnonna e un paio di visite ‘importanti’, che io ricordi. Le case si conoscevano per il nome delle donne che le comandavano. Di fianco a noi c’era la Catina e dall’altra parte la Polonia il cui nome mi faceva tanto ridere … la Polonia … sì… e l’Austria-Ungheria! 

Gheto, il muro de la Polonia.

E giù a ridere guardando questa donnona sempre vestita di nero, che governava sé e i suoi fratelli in modo così discreto che poco si riusciva a intuire per cui la sua era la casa del mistero.

Appena più in là, stava la Neta Campanera: Annetta, ovviamente così soprannominata per il suo ormai ‘annoso’ compito di recarsi alla chiesuola vicina all’ora del vespro ad esercitare la sua funzione. In fondo al ghèto c’era la casa dell’Angela, che per tutti noi era la Marcheʃina, una donna piccola di statura ma vispa e incalzante, poco timida e dotata di humor. Una volta ci sorprese perché, tranquillamente, durante una passeggiata coi suoi nipoti cui mi ero accompagnato, si sollevò leggermente la gonna, che normalmente le arrivava alle caviglie, e divaricate un poco le gambe, lasciò andare le sue acque tranquillamente dicendo che «non solo sotto il cielo piove». Ancora, quando glielo richiedevamo – e le condizioni ambientali lo permettevano – la Marchesina era sempre disponibile a replicare l’esibizione pur di farci divertire. Mia nonna, chiaramente non approvava la bravata e diceva che era un po’ ‘matta’ ma le voleva bene, si vedeva, perché l’Angela era generosa e non si tirava mai indietro quando c’era da aiutare qualcuno o fare qualcosa.

Più giù, stavano gli Iriti, che non so se si chiamassero proprio così. Credo fossero un paio di famiglie perché di loro si vedevano i figli o i parenti della mia età, che sbucavano dal grande portone di una corte normalmente ben chiusa. Il sacco del ghèto si richiudeva sulla strada principale con la casa dei Segati ossia Segato al plurale dato che vi abitavano, credo, due fratelli, che avevano una segheria e un deposito di legna più su, ai piedi del monte. Sull’altra testa, per concludere, c’era la bottega di Marcello, che vendeva camicie, bluse, tute chiamate toni – ultime novità pei lavoratori – e soprattutto stoffe perché le donne, i vestiti più facili, se li facevano tutti in casa, e quasi c’era una gara silenziosa fra tutte per far vedere la propria capacità manuale e di gusto, di chi fosse riuscita a influenzare la moda paesana. Perciò, nonostante il paese fosse piccolo, l’affollamento delle donne da Marcello era notevole, come d’altronde il suo impegno a cercare nuovi tessuti-colori-disegni per metterle in competizione. Tra i capi più significativi la travèsa da festa. Da Marcello ci andavo spesso perché mi piaceva vederlo srotolare con abilità i tessuti che sul bancone di legno provocavano uno sbattimento attutito; uno e poi ancora uno e poi un altro; e guardare gli occhi e le mani delle donne che toccavano le stoffe; e il metro di legno, da vero comandante, e la forbice gigante, il taglio accennato e poi lo sforzo e lo strappo se la trama era fine o il rumore degradante della lama a chiudere sul panno se tessuto ce n’era.

Tra le due case di testa c’era la fontana, con colonna e vasca, che ben rappresentava il punto d’unione della comunità del ghetto, meta continua delle donne che tutte armate di arconcello arrivavano per riempire i secchi da acqua, tutti di rame sottile e sbalzato e i più recenti, di banda zincata. Solo chi ha visto questo riesce a leggere la poesia dell’indovinello ‘vanno cantando e tornano lacrimando’ e a risentirne i suoni. Il getto della fontana era continuo e l’acqua, freddissima anche d’estate, allorché la vasca si riempiva di grosse angurie che appena lasciavano scorgere la loro testa verde scuro sopra il filo del liquido. Un’occhiata di fianco al peduncolo a riconoscere il segno lasciato per distinguere la proprietà e, ad una ad una, sparivano specie sul far della sera, quasi a chiudere una giornata di festa. Perché il mio ghetto si chiamasse così, non l’ho saputo fino a poco tempo fa, ma tanto vale perché oggi porta un altro nome.

  1. La cannuccia di fiume (Phragmites communis) ma anche la canna giovane (arundo donax) assurte a nuova moda come eccellenti prodotti ‘ecologici’ nella edilizia d’avanguardia! ↩︎

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